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128 - GLI EVENTI SOCIALI NON SONO DETERMINATI DALLA VOLONTÀ DI QUALCHE ATTORE

Immagine del redattore: libertus65libertus65

Dalla Prefazione di "Alle origini delle scienze sociali", di Lorenzo Infantino, 2022, pag. 9-13


Quando si fa riferimento alle scienze sociali, sembra quasi che esse non abbiano un proprio oggetto e che tutto si risolva in vaghe (e forse vane) discussioni sui vari temi della vita collettiva.

C'è stato però un periodo della storia a cui è stato dato il nome di "epoca della società".

È stato il tornante storico in cui si è realizzata quella che altri non hanno esitato a denominare "scoperta della società".

Non esisteva allora la settorializzazione di oggi.

Il lettore sa che studiosi come Bernard de Mandeville, David Hume, Charles-Louis de Montesquieu, Adam Smith hanno esercitato la loro competenza sull'intero territorio dei fenomeni sociali.

Sono stati consapevoli del fatto che gli esseri umani vivono in una condizione di ignoranza e di fallibilità; e hanno ben compreso che ogni azione deve misurarsi con la scarsità di risorse e di tempo.

Quei pensatori si sono dati il compito di affrancarci dalla credenza, dominante nella storia dell'umanità, secondo cui gli eventi sociali sono la conseguenza diretta della volontà di un qualche attore; un convincimento che porta ad attribuire all'intervento di altre entità quel che non si può imputare all'azione umana.

I fenomeni che non sono il risultato immediato dell'intenzionalità degli esseri umani (e che tuttavia sono determinati dal loro agire) vengono in tal modo trasformati nel prodotto voluto da una popolazione di forze invisibili che, evocate o di loro spontanea iniziativa, prendono parte nel bene e nel male alle vicende della quotidianità.

Le conseguenze inintenzionali scompaiono.

C'è un ordine che si stabilisce intenzionalmente o, come Max Weber ha icasticamente scritto, si vive in una situazione "satura di ordine".

La "scoperta della società" ha preso quindi avvio dalla rinuncia a vedere dietro ogni fenomeno sociale la diretta volontà, umana e/o divina, di qualcuno.

Il che ha lasciato un vuoto che è stato colmato mediante il ricorso al rapporto intersoggettivo, di cui è stata posta in evidenza la capacità di "secernere", "di per sé stesso e ineluttabilmente, lingua, costumi, usi, diritto, potere pubblico".

Tutto è ruotato attorno alla necessità di ottenere la cooperazione altrui.

Questa spinge ciascuno ad adattare le proprie azioni a quelle del prossimo: vengono in tal modo eliminate quelle finalità per le quali non è possibile ottenere cooperazione; vengono prodotte, senza alcuna progettazione, le condizioni a cui gli attori si sottopongono reciprocamente, cioè a dire le norme e le istituzioni sociali.

È stata questa l'idea che ha consentito di voltare le spalle alla vecchia concezione e di gettare luce sugli eventi che si verificano in campo sociale.

Ma spostare l'attenzione dai motivi del soggetto alle conseguenze della sua azione non è stato facile.

Mandeville ci ha lasciato delle pagine corrosive sulla retorica delle buone intenzioni.

Pierre Bayle lo ha preceduto: le sue parole sono state forse meno provocatorie.

E tuttavia gli scritti di entrambi sono stati guardati con un sospetto e con disapprovazione.

Ne è testimonianza l'ostilità, più che l'incomprensione, che Francis Hutcheson ha rivolto a Bayle e, più manifestamente, a Mandeville, a cui si può aggiungere il comportamento assunto nei confronti di Hume.

È sembrato che il rifiuto di porre alla base dell'ordine sociale le intenzioni (e il loro controllo da parte di una popolazione invisibile, posta al di là delle prove e delle confutazioni) dovesse precipitare la vita collettiva in un caos irreversibile, senza più la possibilità di rendere compatibili le azioni umane.

Non si è compreso che l'azione di ciascuno deve essere giudicata per quel che determina nel contesto in cui viene posta in essere.

Gli attori scambiano intenzionalmente mezzi; il che viene certamente fatto per realizzare le proprie finalità.

Ma in questo modo ognuno contribuisce inintenzionalmente al raggiungimento degli scopi dell'altro.

Ciò può spingere ad affermare, come è avvenuto, che si pretende di realizzare un "miracolo logico".

Non di questo si tratta.

Se sottoponiamo la cooperazione, proprio perché tale, ad una doppia lettura, ogni sembianza del "miracolo" viene meno; si può vedere che Ego persegue i propri scopi con i mezzi ottenuti da Alter e che Alter persegue i propri scopi con i mezzi ottenuti da Ego.

Lo scambio volontario porta ciascuno di noi a cooperare inintenzionalmente al raggiungimento delle mete altrui.

Non occorre una gerarchia obbligatoria di fini; e non c'è bisogno di una fonte privilegiata della conoscenza che legittimi tale gerarchia: siamo tutti ignoranti e fallibili.

L'ordine che si stabilisce è di tipo inintenzionale; non può essere imputato alla volontà di alcuno in particolare.

Viene alimentato un processo sociale di carattere ateleologico.

È una continua esplorazione dell'ignoto, che accoglie le conseguenze inintenzionali di carattere positivo e che pone in chiaro quelle di carattere negativo e gli errori che le hanno prodotte.

Il che rende possibile l'eliminazione dei modelli di comportamento che non rispondono, o non rispondono più, alle attese degli attori; e si realizza quella forma di selezione culturale che, come vedremo nella parte finale del libro, ha tanto influenzato Herbert Spencer e Charles Darwin.

Detto in altra maniera, porre al posto delle intenzioni le conseguenze dell'azione sta a significare che la prescrizione cede il passo alla scelta.

La prima è lo strumento mediante cui rendere obbligatoria un'unica gerarchia di fini e dettare i contenuti della vita di ciascuno.

La seconda è invece il mezzo che pone tutti nelle condizioni di esercitare la propria autonomia decisionale.

Siamo di fronte a modi radicalmente diversi di delimitare i confini fra le azioni.

Cambia l'habitat normativo.

Nel primo caso viene imposto quel che è "giusto" (e l'individuo non ha alcuna autonomia).

Nel secondo caso, viene impedito quel che è "ingiusto" (ed il resto viene lasciato alla scelta dell'attore).

È una questione che Hume ha perfettamente compreso.

Si spiega così, anche se la sua filosofia del diritto è stata (ed è) spesso trascurata, la sua insistenza sulla necessità di sostituire il "governo degli uomini" (e/o delle divinità) con il "governo della legge"; necessità che non è sfuggita a Montesquieu e che è stata ben presente a Smith, il quale avrebbe voluto, come è noto, scrivere un'opera di teoria del diritto, un progetto confermato pure nel momento in cui il filo della sua vita stava per spezzarsi.

Gli autori su cui mi sono prevalentemente soffermato sono accomunati dall'idea che l'oggetto delle scienze sociali debba essere costituito dallo studio delle conseguenze inintenzionali.

Come si sa, Joseph A. Schumpeter ha dato a tale approccio il nome di "individualismo metodologico".

Egli ha anche precisato che "fra l'economia e la psicologia non esistono relazioni" di oggetto.

Malgrado ciò, il metodo individualistico è stato spesso collocato nella provincia dell'utilitarismo ispirato da Jeremy Bentham.

Sono state in tal modo messe assieme due tradizioni di ricerca che devono essere tenute ben distinte.

Nell'evoluzionismo culturale l'azione umana è l'elemento che serve a spiegare il processo sociale.

Nell'utilitarismo in senso stretto, non c'è azione; c'è semplicemente un "calcolo felicifico", effettuato da un soggetto che dispone dei dati rilevanti e che quindi si sottrae all'incertezza dell'interazione.

Ogni cosa si riduce ad un esercizio di logica; e ciò può generare l'illusione che tutti sappiano tutto.

Ma il fatto è che i dati rilevanti non sono in possesso di alcuna singola mente.

Non c'è attore che possa sapere in anticipo quel che gli altri, anch'essi posti in un'indefettibile condizione di ignoranza e di fallibilità, decidono di fare.

Nessuno può eludere il problema delle conseguenze inintenzionali.

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