129 - LA PACE È LA TEORIA SOCIALE DEL LIBERALISMO
- libertus65
- 29 mar
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Da “Liberalismo”, di Ludwig von Mises, 1927, pag.155-158
Per il liberale non c’è antitesi tra politica interna e politica estera, e per lui la questione spesso sollevata e appassionatamente dibattuta, se cioè le considerazioni di politica estera debbano precedere quelle di politica interna o viceversa, è puramente priva di senso.
Giacché il liberalismo nella sua sintesi politica abbraccia a priori il mondo intero, e ritiene valide anche per la grande politica mondiale le medesime idee che esso cerca di realizzare su scala locale.
Se il liberale distingue fra politica interna e politica estera, lo fa semplicemente per suddividere e articolare in modo funzionale la sfera dei grandi compiti della politica, e non certo perché pensi che in politica estera debbano valere principi diversi da quelli adottati in politica interna.
L’obiettivo della politica interna del liberalismo è identico a quello della politica estera: la pace.
Il liberalismo persegue la cooperazione pacifica tanto nei rapporti interni degli Stati quanto nelle relazioni tra gli Stati.
Punto di partenza del pensiero liberale è la consapevolezza del valore e dell’importanza della cooperazione umana, e tutti i progetti che il liberalismo vuole realizzare servono a consolidare lo stadio già raggiunto dalla mutua cooperazione tra gli uomini e a perfezionarla ulteriormente.
Il suo ideale ultimo è una cooperazione completa, pacifica e senza attriti di tutta l’umanità.
Il pensiero liberale guarda sempre all’umanità intera e non solo ad alcuni settori; non si lega a gruppi ristretti, né si ferma ai confini del villaggio, della regione, dello Stato e del continente .
È un pensiero cosmopolita, ecumenico, un pensiero che abbraccia tutti gli uomini e tutta la Terra.
In questo senso, il liberalismo è un umanesimo , e il liberale è un cittadino del mondo, un cosmopolita.
Oggi che le idee antiliberali dominano il mondo, il cosmopolitismo è diventato un rimprovero agli occhi delle masse.
Esistono in Germania, patrioti ultrazelanti che non riescono a perdonare ai grandi poeti tedeschi, e specialmente a Goethe, di non aver limitato il loro pensiero e i loro sentimenti alla nazione e di essere stati cosmopoliti.
Essi ritengono che esista un’antitesi insuperabile fra gli interessi della nazione e quelli dell’umanità, e che chiunque volga le sue aspirazioni al bene di tutta l’umanità debba necessariamente trascurare gli interessi del proprio popolo.
Nulla di più insensato di questa concezione.
Come non è affatto vero che chiunque operi per il bene di tutto il popolo tedesco danneggi per ciò stesso l’interesse del suo piccolo luogo natio, così è altrettanto falso che un tedesco che operi per il bene di tutta l’umanità danneggi gli interessi particolari dei suoi concittadini, degli uomini cui più si sente vicino per comunanza di lingue e di costumi, e per una complessa serie di filiazioni e di radici culturali, comuni.
È vero esattamente il contrario: il singolo individuo che è interessato alla ricchezza e alla prosperità della piccola comunità in cui anch’egli vive e prospera è altrettanto interessato alla prosperità del mondo intero.
I nazionalisti sciovinisti, i quali sostengono che tra gli interessi dei singoli popoli esistono contrasti insormontabili e vogliono attuare una politica di prevaricazione della propria nazione sulle altre, quand’anche dovesse comportare l’uso inevitabile della violenza, sono poi gli stessi che enfatizzano al massimo la necessità e l’utilità della coesione all’interno dei singoli popoli e dei singoli Stati.
Quanto più esaltano esasperatamente la necessità della lotta verso l’esterno, tanto più esasperatamente pretendono l’unità interna della nazione.
Orbene, il liberalismo non si oppone affatto a questa rivendicazione della concordia nazionale.
Al contrario!
La rivendicazione della pace all’interno della nazione è un postulato che è nato dall’idea stessa del liberalismo e si è imposto solo grazie alla forza delle idee liberali nel XVIII secolo.
Prima che le idee liberali scendessero in lizza con la loro esaltazione incondizionata della pace, i popoli non si sono limitati a farsi la guerra tra loro; una sequenza interminabile di conflitti e scontri sanguinosi si è snodata anche all’interno di ciascun popolo.
Ancora nel XVIII secolo, nei Culloden britanni combattevano contro britanni.
Ancora nel XIX secolo in Germania la Prussia faceva la guerra all’Austria e altri Stati tedeschi si schieravano dall’una e dall’altra parte.
A quel tempo la Prussia non ci trovava nulla di male a schierarsi con l’Italia contro l’Austria tedesca, e nel 1870 l’intervento dell’Austria a fianco dei francesi che si battevano contro la Prussia e i suoi alleati servì soltanto a rallentare il corso degli eventi.
Molte delle vittorie di cui l’esercito prussiano ha sempre menato vanto sono state ottenute da truppe prussiane contro truppe di altri Stati tedeschi.
Solo il liberalismo è stato per i popoli maestro di tolleranza nei loro rapporti interni, così come vuole essere maestro di pace anche nei loro rapporti con l’estero.
L’argomento decisivo e inconfutabile contro la guerra, il liberalismo lo trae dalla realtà della divisione del lavoro internazionale, che già da tempo travalica i confini della singola comunità politica.
Nessuna nazione civile oggi copre autarchicamente il suo fabbisogno, attingendo direttamente alla sua produzione interna.
Tutti i popoli dipendono dall’importazione di merci dall’estero, che pagano con l’esportazione dei propri prodotti.
Impedire lo scambio internazionale delle merci significherebbe infliggere un danno irreparabile al grado di civiltà raggiunto dall’umanità, equivarrebbe per milioni e milioni di persone alla perdita definitiva del benessere, se non addirittura del minimo vitale.
Ma un’epoca caratterizzata dalla dipendenza reciproca dei popoli dalla produzione straniera rende anche impossibili le guerre.
Se a decidere l’esito di una guerra condotta da una nazione saldamente inserita nella divisione internazionale del lavoro oggi può bastare un’interruzione delle importazioni, una politica guerrafondaia dovrebbe preoccuparsi anzitutto di rendere perfettamente autarchica l’economia nazionale, il che vuol dire fermare già in periodo di pace la divisione internazionale del lavoro ai confini del proprio Stato.
Se la Germania pensasse di uscire dalla divisione internazionale del lavoro e puntasse a coprire direttamente il proprio fabbisogno con la produzione interna, non farebbe che provocare una drastica riduzione del prodotto annuo lordo del lavoro tedesco e quindi un notevole abbassamento del benessere, del tenore di vita e del livello civile del popolo tedesco.
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