da “Potere. La dimensione politica dell’azione umana”, di Lorenzo Infantino, 2013, pag. 161-168
È stata poi la Gloriosa Rivoluzione a fare del “governo della legge“ il suo principio basilare.
E John Locke, a cui spetta il merito di aver fornito una “comprensiva giustificazione filosofica“ di quella rivoluzione, ha anzitutto affermato: gli uomini si trovano in società “per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose che io denomino, con termine generale, proprietà“.
Locke ha inoltre aggiunto: “chiunque detenga il potere legislativo o supremo di una società politica è tenuto a governare secondo leggi fisse, stabilite, promulgate e note al popolo, e non secondo decreti estemporanei, con giudici imparziali e integri, che decidano le controversie secondo quelle leggi“.
Tutto ciò significa che Locke, non diversamente da Hobbes, ha legato la nascita del potere pubblico alla necessità di preservare la vita.
E tuttavia, a differenza di Hobbes, ha scelto il “governo della legge”.
Locke avrebbe voluto essere un esploratore dei limiti della conoscenza, un “geografo della ragione“.
Il che lo avrebbe portato a rendere chiari i presupposti gnoseologici del “governo della legge“.
Egli ha però mancato l’obiettivo che si era prefissato nel campo della teoria della conoscenza, perché non è riuscito ad affrancarsi dalla dottrina della “verità manifesta“.
Ha infatti ritenuto che, “se il senso fornisce alla ragione le idee delle cose sensibili particolari e mette a sua disposizione la materia del discorso; e se la ragione a sua volta offre al senso una guida, ordina fra esse le immagini delle cose oggetto della percezione sensibile, altre ne forma successivamente, alcune ne produce di nuove; allora non vi è nulla di tanto oscuro, di tanto nascosto, di tanto lontano da ogni comprensione che la mente, capace di tutto con l’aiuto di queste facoltà, non possa arrivare a comprendere con la riflessione e il raziocinio“.
Ora, anche a non voler considerare che quelli che chiamiamo “dati sensoriali“ sono semplicemente delle variabili che dipendono dalla nostra esperienza presensoriale, resta il fatto che Locke ha insediato un’autorità che non è compatibile con il fallibilismo della condizione umana.
William W. Bartley III ha giustamente scritto che il problema non si risolve sostituendo un’autorità razionale ritenuta insoddisfacente con un’autorità razionale giudicata soddisfacente.
Non si approda a nulla passando da un fondamento all’altro, dal primato dell’intuizione intellettuale a quello dell’esperienza sensoriale.
Come ha scritto Popper, anche autori che hanno mostrato “tendenze individualistiche, non hanno osato fare appello al nostro giudizio critico - al vostro o al mio; forse perché hanno pensato che ciò avrebbe potuto portare al soggettivismo e all’arbitrarietà“.
Non si sono resi conto che c’è una sola via percorribile. E questa consiste nel tentare permanentemente di individuare i nostri errori.
Dobbiamo quindi rigettare l’idea che possa esistere un qualche individuo detentore privilegiato della conoscenza e dobbiamo parimenti rinunziare all’idea di una verità manifesta a tutti.
Ossia: dobbiamo affidarci alla competizione più aperta, perché solamente confrontando ipotesi e paradigmi possiamo “sperare di scoprire e di eliminare l’errore“.
Sul versante della teoria della conoscenza, Locke non è pertanto approdato a posizioni fallibilistiche.
Ma c’è di più: il Giusnaturalismo da lui adottato ha ulteriormente appesantito la sua posizione.
Lo stato di natura è una condizione di “perfetta libertà“, uno “stato di uguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca“.
Infatti, la ragione “insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recare danno ad altri“.
D’altronde, la legge di natura è “evidente e intelligibile a ogni creatura ragionevole“.
E tale legge “può essere descritta come disposizione della volontà divina, conoscibile per mezzo del lume naturale dell’intelletto“.
È così che la ragione prende il posto della rivelazione.
Ciò equivale a dire che Locke, sebbene abbia riconosciuto che gli uomini non sono uguali dal punto di vista sostanziale, li ha posti sullo stesso piano gnoseologico (e politico).
Il che è del tutto corretto.
Ma la motivazione è inaccettabile: perché tale uguaglianza è basata sulla “verità“ che tutti possiedono, mentre dovrebbe essere la conseguenza della condizione, che accomuna tutti gli esseri umani, di ignoranza e di fallibilità.
Infatti “non si risolve nulla assumendo che tutti sappiano tutto”.
Se esistesse tale situazione di onniscienza, ogni problema verrebbe meno.
Ossia: “se tutti sappiamo tutto“, se ogni uomo “porta le fonti della conoscenza in sé stesso“, conosciamo ciò che possiamo fare e quello che non possiamo fare.
C’è un ordo rerum che si definisce istante per istante.
Le azioni non hanno quindi bisogno di alcun processo sociale di co-adattamento; nascono già co-adattate.
E, poiché vale la condizione di “perfetta libertà“ e lo “stato di uguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca“, scompare la stessa dimensione politica, non c’è necessità, a ben riflettere, del contratto originario, del potere pubblico e della limitazione della sfera di intervento di quest’ultimo.
Tutto è noto.
E ne discende che non ci sono esiti inintenzionali.
Non c’è bisogno di stabilire regole morali e giuridiche; libertà e giustizia non hanno alcun significato.
E tuttavia la realtà è ben diversa.
Bisogna perciò accostarsi in qualche misura a essa.
Viene in primo piano il problema dell’ignoranza.
Accade che, “sebbene la legge di natura sia evidente e intelligibile a ogni creatura ragionevole“, gli uomini, “in quanto sono influenzati dai loro interessi e la ignorano per mancanza di studio, tendono a non riconoscerla come una legge che li obblighi ad applicarla ai loro casi particolari“.
Inoltre, quella umana è una condizione di scarsità, “richiede il lavoro e i materiali da lavorare“ e “introduce necessariamente possessi privati“.
Pertanto, “nonostante tutti i privilegi dello stato di natura, gli uomini si trovano in una cattiva condizione e sono presto spinti a entrare in società“.
Cioè: occorre “rimediare a quegli inconvenienti dello stato di natura, che necessariamente conseguono al fatto che ciascuno è giudice della propria causa, con l’istituzione di un’autorità riconosciuta, alla quale ciascun membro di quella società possa appellarsi per ogni offesa ricevuta e ogni controversia che possa sorgere“.
Nasce così la società “politica e civile”, che viene alla luce per avere una “legge comune stabilita e una magistratura a cui appellarsi, insignita dell’autorità di decidere le controversie”.
Il potere pubblico non deve quindi prescrivere i contenuti della vita di ciascuno.
È sufficiente che svolga una funzione di servizio.
Come dire che “il governo è lo strumento e non il creatore della società“.
……………
Come si nota, non tutte le parti dell’opera lockiana possono farsi rientrare in un disegno omogeneo.
Una costruzione teorica più coerente viene fornita da quello che Duncan Forbes ha chiamato “scientific Whiggism“ o anche “sceptical Whiggism“.
Quel che urge anticipare è che, tramite il postulato della “identità naturale degli interessi“, Locke ha fatto del potere pubblico uno strumento della società e non il creatore di essa.
Lo “sceptical Whiggism“ giunge allo stesso risultato, ma dà un’innovativa ed estesa spiegazione dell’ordine sociale, cioè a dire del co-adattamento delle azioni umane.
Viene in tal modo soppiantato il postulato lockiano.
E la dimensione politica della vita viene sottratta a qualsiasi “oscuramento“.
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