da “Potere. La dimensione politica dell’azione umana”, di Lorenzo Infantino, 2013, pag. 26-30
Come sappiamo, nelle pagine simmeliane la questione economica coincide con quella della scarsità.
Esiste cioè uno iato tra i bisogni e desideri generati dal microcosmo interiore dell’uomo e le possibilità offerte dal macrocosmo esterno.
Simmel ha fatto ricorso a un’immagine biblica.
Ha affermato che la situazione in cui il problema economico non sorge è quella “rappresentata simbolicamente dal Paradiso terrestre, dove soggetto e oggetto, desiderio e appagamento non si sono ancora scissi“.
Ne consegue che, fuori da quella situazione, nessuna azione può sottrarsi alla condizione di scarsità.
Detto con le parole di Ludwig von Mises, ciò significa che “solo in una Cuccagna popolata da uomini immortali e indifferenti al fluire del tempo, dove ogni uomo è sempre e comunque perfettamente soddisfatto e completamente sazio; o in un mondo dove non può essere raggiunto un miglioramento della soddisfazione personale o i bisogni non si riproducono, non esiste quello stato di cose che chiamiamo privazione“.
Pertanto, neanche quando svolgiamo un’attività ludica, possiamo sfuggire alla condizione economica, perché pure in quella circostanza abbiamo bisogno di economizzare i nostri mezzi, che rimangono in ogni caso scarsi.
Il “costo“ di ogni azione di carattere ludico deve tenere conto di quanto viene assorbito da quella stessa azione e di ciò a cui rinunziamo, in via immediata e differita, sottraendo quelle risorse ad altre possibili attività.
Il “ricavo“ invece è dato dalla rigenerazione dell’energia e delle aspettative, a cui dà luogo la sospensione delle occupazioni ordinarie o della quotidianità.
Con riferimento ai mezzi, ogni azione è quindi economica.
Nel linguaggio corrente, si suole riservare tale qualificazione solamente alle azioni poste in essere nel mondo degli affari.
E tuttavia, anche là dove non utilizziamo risorse materiali, la scarsità del tempo a nostra disposizione e la limitatezza delle nostre personali energie connotano economicamente ogni nostro atto.
Possiamo allora dire che c’è una dimensione economica in senso lato che, quali che siano i fini perseguiti, caratterizza ogni nostra azione.
E c’è una dimensione economica in senso stretto, presente nei rapporti che si svolgono mediante un prezzo definito in termini monetari.
Tutto ciò va in una direzione diversa da quella dell’homo oeconomicus della tradizione puramente utilitaristica, perché in questo caso:
1. il soggetto non agisce in conseguenza della condizione di scarsità, ma per effetto di un impulso all’arricchimento
2. egli è indefettibilmente proteso alla massimizzazione dei propri vantaggi
Il primo punto discende direttamente dal fatto che il modello dell’homo oeconomicus è totalmente pervaso dallo psicologismo.
Il soggetto è infatti spinto all’azione dal “desiderio di accumulare ricchezze ed integrare tali ricchezze per produrne altre”.
Non è dunque la condizione umana a imporre all’attore di fare i conti con i mezzi; è lo stesso soggetto a decidere di accumulare risorse e di fare di tale accumulazione il proprio scopo.
Il che è fuorviante: perché le mete finali non sono mai economiche.
Come ha giustamente rilevato Hayek, “le considerazioni economiche sono semplicemente quelle con cui conciliamo e adattiamo i nostri diversi scopi, nessuno dei quali è in definitiva economico (salvo che per l’indigente o per l’uomo che assume il far denaro come fine in sé)“.
Economici sono solo i mezzi attraverso cui tentiamo di perseguire i nostri scopi finali.
Veniamo ora al secondo punto.
Se vale quanto sopra detto, se cioè gli obiettivi non sono economici, l’idea di un attore proteso alla massimizzazione delle risorse diviene insostenibile, perché ciò determinerebbe un conflitto con il perseguimento dei fini; questi dovrebbero essere sacrificati, e lascerebbero il posto all’esclusiva accumulazione dei mezzi.
La massimizzazione presuppone inoltre che il soggetto, anche se non onnisciente, abbia conoscenza dei “dati rilevanti”.
Tutti sanno tutto; e non resta che massimizzare.
Ma la realtà è ben diversa.
Gli attori non hanno la conoscenza presupposta dalla teoria dell’uomo oeconomicus.
E se dovessero condizionare lo scambio all’acquisizione di tale conoscenza, si condannerebbero all’inazione.
Gli uomini possono agire per appagare il desiderio di ricchezza.
Ma cooperano volontariamente per soddisfare i loro bisogni, per colmare le loro insufficienze.
E lo scambio è la forma assunta dalla cooperazione volontaria, che ha come suo scopo quello di migliorare la posizione delle parti coinvolte.
Lo scambio produce “un incremento della somma assoluta dei valori percepiti“, perché “ognuno offre in cambio soltanto ciò che gli è relativamente necessario“.
L’assetto “distributivo“ che fa seguito a ogni scambio genera una maggiore valorizzazione dei beni disponibili.
Anche ipotizzando che “ogni azione consista di fatto in una semplice dislocazione, di volta in volta diversa, all’interno di una quantità di valore oggettivamente immutabile, la forma dello scambio provoca comunque in un certo qual modo, una crescita intercellulare dei valori.
La somma oggettivamente uguale di valori, attraverso la ripartizione più vantaggiosa prodotta dallo scambio, si trasforma in una somma soggettivamente più grande, una quantità maggiore di utilità percepita“.
Volendo usare un linguaggio a noi più vicino, si può dire che lo scambio costituisce un gioco a somma positiva.
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