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132 - IL COLLETTIVISMO È POLITICO, NON SCIENTIFICO

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    libertus65
  • 15 minuti fa
  • Tempo di lettura: 4 min

da “Socialismo” di Ludwig von Mises, 1922, pag. 99-101


Il fatto è che il collettivismo non può essere spiegato come una necessità della scienza.

Solo le esigenze della politica possono rendere conto di esso.

Non si limita perciò, come si è limitato il realismo concettuale, ad affermare la reale esistenza delle istituzioni sociali - indicandole come organismi ed esseri viventi nel vero senso della parola -, ma le idealizza, ne fa delle divinità.

In maniera del tutto aperta e senza equivoci, Gierke ha dichiarato che bisogna rimanere saldamente aggrappati “all’idea dell’unità reale della comunità“, perché solo così è possibile chiedere all’individuo di mettere la propria forza e la propria vita al servizio della nazione e dello Stato.

Lessing aveva però detto che il collettivismo non è altro che il “mantello della tirannia“.

Se il conflitto tra gli interessi della comunità e i particolari interessi dell’individuo esistesse davvero, gli uomini sarebbero del tutto incapaci di qualsiasi collaborazione sociale.

Il normale rapporto fra gli esseri umani sarebbe la guerra di tutti contro tutti.

Non ci sarebbe pace o reciproca tolleranza, ma solamente una tregua temporanea, che non durerebbe più a lungo di quanto la stanchezza di una o di tutte le parti renderebbe necessaria.

Almeno potenzialmente, l’individuo sarebbe in permanente rivolta contro tutti e ciascuno, esattamente alla stessa maniera in cui si trova in un’incessante guerra con le bestie feroci e i bacilli.

La visione collettivistica della storia, che è totalmente asociale, non può quindi concepire che le istituzioni sociali siano nate in un modo diverso da quello che le vede come il risultato dell’intervento di un “artefice del mondo”, del “demiurgo” platonico.

Questi opera nella storia mediante i suoi strumenti, gli eroi, che vincono le resistenze del singolo e lo conducono alla meta stabilita.

La volontà dell’individuo viene così soffocata.

Colui che vuole vivere solamente per se stesso è costretto dai rappresentanti di Dio sulla terra a obbedire alla legge morale, che chiede di sacrificare il proprio benessere a beneficio della comunità e del suo sviluppo futuro.

La scienza della società nasce attraverso il superamento di questo dualismo.

Quando ci si rende conto che gli interessi dei singoli individui sono tra loro compatibili e che questi individui e la comunità non sono in conflitto, si giunge a darsi ragione delle istituzioni sociali, senza più ricorrere all’aiuto degli dei o degli eroi.

Non appena comprendiamo che l’unione sociale dà più di quanto toglie, possiamo abbandonare il demiurgo che con la sua forza costringe l’individuo al collettivismo.

Allorché vediamo che ogni passo in questa direzione giova a coloro che lo fanno, e non solo ai loro futuri pronipoti, possiamo spiegarci l’affermazione di una forma di società più fittamente intessuta, anche senza ricorrere, “all’occulto piano della natura“.

Il collettivismo non ha nulla da opporre alla nuova teoria sociale.

La sua accusa, continuamente reiterata, secondo cui tale teoria non sarebbe in grado di afferrare l’importanza dei “collectiva”, specialmente dello Stato e della nazione, mostra solamente che i suoi rappresentanti non hanno saputo darsi conto del cambiamento intervenuto, sotto l’influenza della sociologia liberale, nei dati del problema.

Il collettivismo non cerca più di costruire una teoria generale della vita sociale; il meglio che esso può opporre ai suoi critici è costituito da abili aforismi, e nulla più.

Nell’economia, come nella sociologia generale, i suoi risultati sono totalmente sterili.

Non è un caso che la cultura tedesca, dominata dalle teorie sociali della filosofia classica che da Kant va a Hegel, non abbia per lungo tempo prodotto niente di importante nella teoria economica; e non è un caso che coloro che hanno rotto l’incantesimo, prima Thunen e Gossen, poi gli austriaci Carl Menger, Bohm-Bawerk e Wieser, siano stati liberi da qualsivoglia influenza della filosofia collettivistica dello Stato.

Quanto poco il collettivismo sia capace di sormontare le difficoltà incontrate nello sviluppo della propria dottrina è mostrato al meglio dal modo in cui ha trattato il problema della volontà sociale.

Rifarsi continuamente alla volontà dello Stato, alla volontà del popolo e alle convinzioni popolari non è sufficiente per spiegare la nascita della volontà collettiva delle istituzioni sociali.

Poiché non è solamente diversa dalla volontà dei singoli individui, ma è addirittura opposta in alcuni punti cruciali, la volontà collettiva non può essere la somma o la risultante di volontà individuali.

Ciascun collettivista appoggia a fonti diverse la volontà collettiva, a seconda delle proprie convinzioni politiche, religiose e nazionali.

Che quella volontà venga interpretata come potere soprannaturale di un re o di un sacerdote, o che venga vista come la qualità di una classe o di un gruppo di persone privilegiate, non cambia di molto le cose.

Federico Guglielmo IV e Guglielmo II erano del tutto convinti che Dio avesse concesso loro un’autorità speciale e questa fede è indubbiamente servita a stimolare il loro scrupoloso impegno a incrementare la loro forza.

Molti dei loro contemporanei hanno condiviso questa loro fede, e sono stati pronti a dare fino all’ultima goccia il proprio sangue al servizio del re inviato loro da Dio.

Tuttavia, come non è in grado di provare la verità di una religione, la scienza non è affatto in grado di provare la verità di tale credenza.

Il collettivismo è politico, non scientifico.

Il suo insegnamento consiste nella trasmissione di giudizi di valore.

 
 
 

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