di Norman Barry (da The Freeman, Fee.org, 1 maggio 2003. Traduzione di Cristian Merlo)
Un tempo si diceva: “la democrazia è la parola che, più di ogni altra, si adatta un po’ a tutto; una sorta di coperchio che va bene per tutte le pentole”. In effetti, regimi politici caratterizzati dai più disparati tratti istituzionali si fregiano del titolo di “democrazia”; esattamente come i più totalitari dei regimi comunisti. Spesso, la migliore cartina al tornasole per testare le credenziali democratiche di un Paese era che lo stesso non fosse associato alla parola “democratico”: basti comparare la Repubblica Federale tedesca, con la omologa Repubblica Democratica.
Un altro esempio particolarmente istruttivo della totale vacuità del termine si può ravvisare nell’elezione del Presidente marxista Salvador Allende, nel Cile del 1970. È sempre stato proclamato come un comunista democratico, che è stato messo in ginocchio dall’America e dal suo capitalismo internazionale. Eppure, egli ottenne solo il 36 per cento nelle elezioni presidenziali e dovette far fronte ad una vasta opposizione in seno al Congresso. Ma, nonostante tutto ciò, Allende si sentì autorizzato a socializzare il Cile sotto l’egida della democrazia.
Una chiave di lettura del problema può essere quella di utilizzare una distinzione, mutuata da logiche argomentative positiviste, ormai non più in voga: intesa a discernere l’accezione emotiva veicolata dal termine, rispetto al suo significato meramente descrittivo. Alcune parole, infatti, possono trasmettere informazioni rappresentative del mondo, similmente a quelle utilizzate per le previsioni meteorologiche -mentre altre sono formulate non certo per dirci qualche cosa di importante, ma per agire sulle nostre emozioni e catturare il nostro consenso: ne siano ad esempio gli slogan pubblicitari e la propaganda politica. Questo è sicuramente vero per il termine “democrazia”: se qualcuno confessasse di essere anti-democratico, costui sarebbe immediatamente tacciato di fascismo. Nell’ambito della sua connotazione emotiva, ogni sorta di implicazione positiva – che si vada dalla libertà, ai diritti, dalla regola di maggioranza, all’interesse pubblico –è ammantata e sdoganata con il marchio di fabbrica della “democrazia”.
Ciò premesso, un punto di partenza per districarci da questo ginepraio terminologico può essere quello di apporre un aggettivo accanto alla parola “democrazia”. Nei regimi postcomunisti e in Occidente è forse meglio intesa come democrazia “liberale”: il che sta ad indicare che il sistema politico non è concepito esclusivamente rapportandolo alla logica maggioritaria. Ciò potrebbe anche essere in contrasto con la democrazia “comunitaria” o con la democrazia “industriale”.
A differenza del giorno d’oggi, la democrazia non è sempre stata accolta con uno spirito di totale devozione. Nel XIX secolo, in Gran Bretagna era ancora considerato degno di rispetto l’opporsi alla democrazia, proprio perché se questa fosse intesa come governo della maggioranza privo di vincoli e di limitazioni, come peraltro si era configurata in quel periodo, la stessa costituirebbe, senza tema di smentita, una minaccia per la libertà, lo stato di diritto, i diritti individuali, la proprietà e lo stesso processo di “civilizzazione”. Nelle “Considerazioni sul governo rappresentativo” di John Stuart Mill, vengono adombrati tutti i tipi di controllo sull’espressone della volontà popolare. In effetti, il punto focale ed irrinunciabile di una costituzione è quello di proteggere i valori universali ed immutabili, contro i capricci mutevoli e transeunti del volgo. Se ci si riflette, può sembrare abbastanza incoraggiante che la sconfitta di Al Gore nelle elezioni presidenziali del 2000, nonostante avesse acquisito la maggioranza del voto popolare, non sia stata accolta con indignazione. Il federalismo costituisce, di fatto, uno dei principali e ben accetti vincoli all’imporsi della democrazia.
Una critica moderna al concetto di democrazia deve originare sicuramente da queste intuizioni, intrise di scetticismo, risalenti al diciannovesimo secolo, purché le stesse riconsiderino un punto di importanza cruciale: la minaccia per il processo di civilizzazione, in realtà, non proviene dall’imporsi di una maggioranza di cittadini non soggetta a freni e vincoli, ma dal condizionamento incontrollabile, esercitato dai gruppi di pressione (qualificati come “fazioni” da Madison), sui processi sociali ed economici. Essi sono molto più pericolosi rispetto alla stessa “tirannia della maggioranza”, per il semplice fatto che possono rivendicare l’imprimatur della democrazia liberale, per i loro effetti contrari all’individualismo e alle logiche di mercato.
Elitismo e democrazia
Sono stati i teorici italiani dell’elitismo che, primi fra tutti, elaborarono una potente critica teorica della democrazia; e alcune delle loro analisi rivestono a tutt’oggi una rilevanza straordinaria per decriptare la realtà attuale [1].
Vilfredo Pareto dimostrò l’inevitabilità del ruolo delle élite, derivandola dalla teoria fondamentale della disuguaglianza umana, e mise altresì in luce che la parola “democrazia” non può essere utilmente utilizzata per distinguere le varie forme di governo, posto che esse si basano tutte su differenti tipologie di predominio della minoranza irresponsabile. Gaetano Mosca giunse alle medesime conclusioni, con la sola differenza che il suo concetto di élite è sostanzialmente originato dal processo di burocratizzazione della società moderna. E, cosa ancor più interessante, uno studio condotto da Robert Michels, relativamente al partito socialdemocratico tedesco, svelò la cosiddetta “legge di ferro” dell’oligarchia: in base alla quale, a fronte della diversa propensione della gente per l’attivismo politico, una minoranza di entusiasti aderenti sarebbe in grado di manipolare un sistema formalmente democratico. Nel linguaggio moderno, ciò si potrebbe semplicemente tradurre affermando che le persone, il cui costo-opportunità per la politica è basso, tenderanno a dominare il sistema, a prescindere da quali siano le sue regole.
Ad ogni modo, fu Joseph Schumpeter a dimostrare che un regime politico democratico liberale potrebbe essere coerente con una certa tipologia di elitismo [2]. Egli fu anche il precursore della moderna teoria economica della democrazia. Si dimostrò mirabilmente realistico ed alquanto preveggente.
Schumpeter sferrò un pesante attacco a quelli che erano ormai diventati i dogmi assoluti dell’ortodossia del pensiero democratico: vale a dire, che il voto a maggioranza riflettesse, in qualche modo, la volontà del popolo al governo, e che il governo democratico producesse una classe migliore di cittadini (in buona sostanza, questa era la giustificazione principale addotta da Mill per legittimare la sua versione del governo rappresentativo).
Schumpeter dimostrò facilmente come non vi fosse alcuna volontà omogenea che contraddistinguerebbe le persone, semmai solo un insieme di volontà concorrenti, e che l’ “interesse pubblico” altro non è che un’illusione a cui credono esclusivamente i filosofi politici. Egli riuscì efficacemente a sovvertire la teoria democratica. Questa non sarebbe caratterizzata da un flusso ascendente (bottom-up, dal popolo al governo) di formazione e diffusione dell’opinione pubblica, bensì esattamente il contrario. Perché sono le élite concorrenti e contrapposte (i partiti politici) ad proporsi e a proporre i loro “articoli” al pubblico, proprio come gli imprenditori offrono i loro prodotti ai consumatori.
Schumpeter si differenziò da Pareto per il fatto di concepire la democrazia alla stregua di una competizione (a tal proposito, non importa quanto numeroso sia l’elettorato, a condizione che sia garantita una certa libertà di competere): la democrazia, pertanto, non è nient’altro che "un accordo istituzionale per giungere a decisioni politiche, in cui gli individui acquisiscono il potere di decidere, in forza di una lotta competitiva intesa ad accaparrarsi il voto della gente" [3]. Ergo, diventa del tutto strumentale stabilire un metodo, come la monarchia o la dittatura, per la scelta del governo.
Essa non produce necessariamente alcun punto di arrivo veramente desiderabile, ed è compatibile con qualsiasi esito. (Del resto, sappiamo tutti che Hitler vinse le elezioni del 1933).
Ancorché Schumpeter abbia sicuramente trovato la chiave per approntare una critica radicale e devastante alla nozione di democrazia, cionondimeno egli non affondò il colpo, riponendo pur sempre delle speranze nell’idea. Nel suo pensiero, infatti, la democrazia potrebbe anche essere in grado di funzionare, purché la società in cui si trovi ad operare sia abbastanza omogenea, possa disporre di un ceto burocratico affidabile (non scordiamoci che Schumpeter scrisse antecedentemente alla Scuola di Public Choice e ben prima che fossero sviluppate le sue elaborazioni in materia di “ricerca della rendita parassitaria”, da parte dei funzionari pubblici), e purché non troppe attività siano soggette all’ingerenza invasiva del processo decisionale politico, inteso come antitetico a quello della libera intrapresa. Egli era sostanzialmente convinto che il livello di razionalità fosse destinato a contrarsi fisiologicamente, non appena le persone abbandonassero il mercato in favore dell’attrazione attivata dalla partecipazione all’arena politica, tanto nella loro veste di elettori, che di attivisti. E questo sembra difficilmente contestabile. Basta semplicemente constatare la razionalità suprema che guida la casalinga nel rispondere repentinamente agli incentivi, forniti dalle variazioni di prezzo, quando effettua la sua spesa al supermercato, in netta antitesi rispetto alla sua ignoranza circa le proposte politiche avanzate dai partiti durante un’elezione. Ma Schumpeter non riuscì a cogliere questo concetto fino in fondo. Il problema non è che la razionalità della casalinga scompaia, come per magia. Semmai, non costituisce suo interesse primario essere ben informata riguardo alla politica. Perché, evidentemente, non si ravvisa alcun incentivo razionale nell’acquisire informazioni circa ciò che integrerebbe il sedicente ”interesse pubblico”. Men che meno, non è nell’interesse di nessuno sacrificare il proprio benessere per conseguire il “bene comune”. I teorici della democrazia non sono mai riusciti a dipanare il mistero del perché le persone razionali continuino imperterrite a votare, posto l’effetto del tutto irrilevante che il singolo voto può sortire sull’esito di un’elezione.
La logica della democrazia
Una critica coerente della democrazia richiede l’analisi di elementi di cui Schumpeter non si era avvalso: in primo luogo, una spiegazione logica dei motivi per cui il bene pubblico spesso non può essere trasfuso e realizzato attraverso il meccanismo del voto (senza accontentarsi di una mera osservazione casuale, in base alla quale si constati che il fenomeno accade raramente) e, in seconda istanza, una teoria che fornisca delle spiegazioni pratiche circa le ragioni che fanno sì che le politiche democratiche degenerino invariabilmente in una disputa, tra gruppi di interesse antagonisti, per accaparrarsi i privilegi.
C’è un famoso paradosso della democrazia, che fu elaborato per primo da un pensatore illuminista, il marchese di Condorcet (morto in un carcere francese durante la Rivoluzione) ed in seguito dimostrato da Kenneth Arrow, nel corso del ventesimo secolo [4]. Di primo acchito, questo può sembrare un gioco puramente di logica o di matematica. Tuttavia, esso postula delle gravi implicazioni per la teoria normativa della democrazia.
Il paradosso sorge quando sussistono almeno tre possibili opzioni di scelta e vi siano per lo meno tre agenti deliberanti. Si immagini che gli individui A, B, e C possano disporre delle seguenti alternative di preferenza: 1, 2 e 3. A antepone 1 a 2 e 2 a 3 (e quindi, ovviamente, 1 a 3); B predilige 2 rispetto a 3 e 3 rispetto a 1 (e quindi 2 rispetto a 1); C, di converso, preferisce 3 a 1 e 1 a 2 (e quindi 3 a 2). Nel caso si tenessero votazioni sulla opzioni di scelta, caratterizzate da un meccanismo decisionale one-to-one (1 versus 2, 1 versus 3, 2 versus 3) ogni elettore trionferebbe. La maggioranza, a turno, opterebbe per 1 rispetto a 2; per 2 rispetto a 3; e per 3 rispetto a 1. Quindi non esisterebbe alcuna specifica e predeterminata “volontà popolare”.
Solo in circostanze eccezionali si registrerà un risultato coerente con le scelte preventivamente espresse [5]. Naturalmente, qualora alle elezioni partecipassero solo due partiti, non si ravviserebbe alcun paradosso, giacché, disponendo di un solo voto, vi sarà, per forza di cose, un solo vincitore.
Ma si prenda ad esempio la Gran Bretagna, in cui vi sono tre partiti politici. Con una sola votazione, il partito che raggranella più voti è in grado di imporsi, e quasi sempre è il partito che non vanta una maggioranza assoluta. Il Partito laburista di Tony Blair è stato eletto nel 2001 con il 44 per cento del voto popolare.
Se fossero state garantite tre opportunità di scelta, e agli elettori fosse stato richiesto di classificare in maniera puntuale le proprie preferenze, l’elezione o avrebbe generato un paradosso, in conformità al teorema dell’impossibilità di Arrow, ovvero premiato il partito più piccolo, quello dei liberaldemocratici, che si sarebbe probabilmente imposto. Quando Ross Perot, nel 1992, si è posto come un serio candidato alla Presidenza, si sarebbe potuto ingenerare un simile paradosso anche negli Stati Uniti, se solo agli elettori fosse stato chiesto di attribuire una classifica ai tre candidati – Perot, George H.W. Bush e Bill Clinton – e fossero state predisposte votazioni separate.
Il senso profondo di questo paradosso, ai fini della comprensione della teoria democratica, postula che è quasi impossibile concepire un sistema suscettibile di cogliere ed esprimere il verdetto “del popolo”. Naturalmente, anche se si registasse un risultato che smentisse le problematiche recate dal teorema di Arrow, non vi sarebbe comunque alcuna garanzia che tale risultato sarebbe stato, di per sé, moralmente giusto. Tutto dipende dal grado di incidenza e di penetrazione delle opinioni e delle convinzioni in seno ad un dato contesto sociale. In una società razzista, le opinioni della gente sono probabilmente passibili di essere catalogate ed ordinate secondo gradi di cattiveria. Di fatto, è più facile che le problematiche sollevate dal teorema di Arrow si manifestino in società libere e aperte, dove fiorisce la divergenza e la varietà di opinioni. Gli individualisti sostengono che il problema del voto potrebbe essere agevolmente aggirato se solo le decisioni fossero assunte dai singoli agenti, sulla scorta di scelte individuali. Ma probabilmente bisognerebbe comunque far ricorso, almeno in alcuni ambiti, a decisioni di tipo collettivo: ad esempio quelle da assumersi in materia di difesa nazionale, tali che le complicazioni enucleate dal teorema di Arrow continuerebbe a sussistere nuovamente.
Ma quali sono i mali inerenti alla democrazia?
Può essere ora utile prestare attenzione ad alcuni aspetti dell’analisi economica, intesi a delineare le dinamiche di funzionamento di una democrazia convenzionale. Il punctum dolens consiste propriamente nello stabilire se trattasi di un meccanismo efficiente per l’erogazione di effettivi beni pubblici, anche qualora si operasse in un contesto di stato minimo. Dovremmo rifarci all’intuizione di Schumpeter, in base alla quale i politici sono “imprenditori” sui generis, interessati o al potere in quanto tale, o alle sinecure garantite dall’occupazione di certe poltrone. Esiste, in altre parole, una “mano invisibile” nella politiche democratiche, paragonabile a quella esistente in una economia di mercato, capace di assicurare che il proprio interesse razionale possa produrre il bene pubblico, in virtù di interazioni improntate al libero scambio? Teoria ed evidenza empirica propendono fortemente per un responso inappellabile: non esiste nulla di tutto ciò. Il livello complessivo della spesa pubblica in una democrazia è molto più elevato di quanto, in realtà, la gente desidererebbe, come indubbiamente lo sono le tasse esatte per il suo finanziamento. Così come, nei regime democratici, si registrano costantemente degli episodi inflazionistici, in quanto i governi hanno rimosso il vincolo alla creazione arbitraria di moneta, ripudiando il gold standard. Inoltre, una miriade di politiche non sarebbero ovviamente perseguite, se non dipendesse da finalità elettorali.
Ma nei regimi democratici semi-socialisti, quali la Gran Bretagna e nel resto d’Europa, molti servizi, come la salute e la previdenza, devono fronteggiare un malcontento diffuso, a causa del loro sovvenzionamento sub-ottimale. L’esempio classico è la sanità socializzata della Gran Bretagna, per la quale lo Stato spende un irrisorio 7 per cento del PIL. Se i cittadini potessero spendere i loro soldi per acquistare, in proprio, delle prestazioni sanitarie nel settore privato, sicuramente otterrebbero dei risultati migliori . Così la democrazia produce il paradosso, per cui ad una irrimediabile proliferazione di una sterminata teoria di spese eccessive ed inutili, si affianca, di rimando, una sotto-produzione di beni o servizi, che sarebbero invece alquanto ambiti dalla popolazione: proprio perché non esiste alcun meccanismo politico in grado di intercettare e di interpretare i desideri sottesi alle scelte individuali. La spiegazione, semplice, consiste nell’evidenza che in una democrazia il governo tende ad essere una coalizione di interessi (fazioni), e in un sistema soggetto a vincoli piuttosto laschi, la chiave di volta del successo non sta certo nel promuovere il cosiddetto “bene pubblico”, ma nel compensare, con privilegi sonanti, i gruppi elettoralmente rilevanti.
Nella maggior parte dei casi, il bene pubblico consisterebbe propriamente nel fatto che lo Stato la smettesse, una volta e per tutte, di ingerirsi negli affari privati.
Ma quella linea politica non sarebbe di per sé premiante in termini di suffragi, perché quasi tutti [in particolar modo, i gruppi politicamente ed elettoralmente rilevanti, ndt] beneficiano di una qualche attività promossa e/o intrapresa dallo Stato: se non sono le sovvenzioni agli agricoltori , saranno i privilegi commerciali (i controlli all’importazione) a favore dell’industria siderurgica.
Nei sistemi europei, caratterizzati da sistemi a rappresentanza proporzionale, gli accordi sono raggiunti a livello parlamentare. Nelle intese in cui il vincitore può imporsi solo con una maggioranza relativa, i partiti antagonisti sono invece composti da coalizioni finalizzate alla ricerca della rendita parassitaria.
In America, il livello della spesa pubblica è notevolmente condizionato e stimolato, nella sua inarrestabile crescita, dall’imporsi delle dinamiche di logrolling.
Ad uno Stato, per ottenere la maggioranza in Congresso, che gli varrà l’accaparramento di qualche specifico beneficio federale, può sicuramente apparire opportuno assecondare le altrui richieste, aderendo ad una ben precisa logica di scambio di favori: ovviamente, il gravame complessivo della spesa non può che risentirne in maniera pregiudizievole. Inoltre, la pratica di spacciare come “omnibus” taluni progetti di legge, infirma gravemente la facoltà di veto del Presidente (l’istituto del veto condizionato è stato respinto come incostituzionale dalla Corte Suprema), in quanto parti della proposta potrebbero comunque essere accolte, in forza di particolari motivi suscettibili di integrare un “pubblico interesse”. Di fatto, una democrazia funzionerebbe senz’altro meglio se i cittadini potessero votare direttamente in merito a specifiche e singole questioni, anziché delegare i loro rappresentanti ad esprimersi su un pacchetto indistinto di tematiche, approntato dai partiti politici. Contrariamente a quanto asserisce il conservatorismo tradizionale, la democrazia diretta costituisce senz’altro un miglior sistema di governo che la democrazia rappresentativa.
Un ulteriore elemento teso a favorire l’espansione ipertrofica dello Stato è da rinvenirsi nel fatto che i benefici di una misura o di un intervento sono estremamente concentrati, mentre i loro costi sono ampiamente diffusi. In effetti, se da un lato non sarebbero tante le persone in grado di avvertire il minor aumento delle tasse necessarie a sovvenzionare un privilegio, dall’altro gli effetti per i suoi beneficiari sono immediati ed evidenti. Ciò che, inoltre, favorisce oltremodo il proliferare di speciali gruppi di pressione, votati alla ricerca della rendita parassitaria, è l’asimmetria informativa. I loro membri avranno infatti una maggiore conoscenza dei problemi particolari che stanno loro a cuore, più di quanto non l’abbiano tutti gli altri cittadini: essi vanteranno, pertanto, una posizione privilegiata nel condizionare le scelte dei governanti.
Questa situazione determina, per tutti, delle peggiori condizioni di vita. Ma è anche vero che ogni persona si trova vittima di un “dilemma del prigioniero”: nessuno, in altre parole, ha un incentivo razionale per uscire da un sistema da cui ottiene comunque qualche minimo beneficio, perché non potrà garantire che gli altri saranno così avveduti da fare la stessa cosa. Le cose potrebbe andare addirittura peggio di quanto vadano attualmente. Qualcosa di simile è successo in Australia negli anni ottanta. I costi dei sussidi statali erano così elevati che ben pochi potevano beneficiarne; ci fu, pertanto, un incentivo a sbarazzarsi, una volta e per tutte, di tutta una serie di vincoli. Ed è quello che fece il governo laburista.
Esiste una via d’uscita?
Forse in ragione del fascino esercitato dalla sua particolare connotazione emozionale, anche il più semplice atto con cui si tende a mettere in discussione l’idea stessa di democrazia, viene bollato come “politicamente non corretto” e sostanzialmente messo al bando. Nel tempo, sono state evocate varie alternative, ma la maggior parte sono considerate impraticabili, a prescindere da quale sia la loro logica concettuale. Come suggerito in precedenza, un approccio efficace, paradossalmente, potrebbe essere quello di chiedere “più democrazia”, rimettendo direttamente il diritto di scelta ai cittadini, anziché ai loro rappresentanti eletti. È chiaro che l’erosione delle forze di mercato sia avvenuta in concomitanza e per via dell’adozione di un ideale democratico che impone ben pochi vincoli ai governanti. Non vi è dubbio che un candidato alla Presidenza non lo ammetterebbe mai, ma al momento è piuttosto facile conseguire il potere politico: basta ottenere circa il 50 per cento dei votanti, e non degli elettori, in una corsa a due per la poltrona. E la cosa diventa ancor più facile in ordinamenti caratterizzati dalla presenza di una moltitudine di partiti. È sicuramente vero che in America esiste una Costituzione, ma i suoi limiti originari sono praticamente scomparsi. D’altro canto, ci si chiede come le “guarentigie costituzionali” possano mai essere efficaci nell’era della democrazia di massa. Il più grave pregiudizio a questa concezione è stato arrecato dalla perdita del senso del federalismo più autentico. Il Decimo Emendamento, che è stato ideato per preservare l’integrità dei singoli Stati, sta ormai perdendo del tutto vigore, e il governo federale di Washington ha assunto compiti e responsabilità, del tutto inimmaginabili per i Padri Fondatori.
Ad ogni modo, vale sempre la pena fare dei ragionamenti sulla tipologia di riforme istituzionali che potrebbero preservare i diritti individuali e lo stesso mercato. La Svizzera è riuscita sinora a resistere agli eccessi degli “assalti alla diligenza”, proprio perché ha fatto leva sino in fondo sui suoi principi costituzionali. Gli emendamenti alla Costituzione sono infatti stati approvati dalla maggioranza dei Cantoni e dalla maggioranza degli elettori; i cittadini possono richiedere un referendum su ogni legge approvata dal parlamento federale; e ci sono una serie di altri meccanismi istituzionali per preservare la libertà dei singoli. Al momento, i Cantoni spendono ancora molto più di quanto non faccia il governo federale, e gli elettori regolarmente resistono alle pretese dei loro governanti, votando contro qualsiasi iniziativa che possa essere riconducibile agli intendimenti dirigistici dell’Unione europea. I loro governanti tendono a promuovere l’ideale dell’Unione, propriamente perché essa costituisce un paradiso per tutti i parassiti, alla ricerca di rendite politiche. Tutto questo potrebbe sembrare sin troppo blando, agli occhi di chi ha compreso in cosa consista realmente la democrazia. Anche i vincoli istituzionali che si ravvisano nella Confederazione elvetica, e tesi a contenere l’espansione dello Stato, non possono propriamente dirsi insormontabili; in taluni frangenti, di fatto, non sono riusciti a resistere agli attacchi portati dai fautori di un maggior centralismo. Ma essi costituiscono, ad ogni modo, un modello in grado di scalfire l’edificio eretto sulla regole della maggioranza e della sovranità quasi illimitata.
[1] Si rimanda a Norman Barry, An Introduction to Modern Political Theory (London: Macmillan, 2000), pp. 284-87.
[2] Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy (London: Allen and Unwin, 1954).
[3] Ibid., p. 229.
[4] Kenneth Arrow, Social Choice and Individual Values (New York: Wiley, 1963).
[5] Si veda Norman Barry, “The Stakeholder Concept of Corporate Control Is Illogical and Impractical,” The Independent Review, Spring 2002, pp. 541-54.
Articolo di Norman Barry su The Freeman.
Traduzione di Cristian Merlo.
Comentarios