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122 - SCUOLA AUSTRIACA E RELIGIONE - Prima parte

Da “Individualismo e religione nella Scuola Austriaca”, di Raimondo Cubeddu, 2019, Introduzione, pag. 9 - 16


Se la relazione tra Filosofia e Rivelazione è uno dei problemi centrali della condizione umana, prendendo spunto dalla fulminante definizione di Leo Strauss del liberalismo (“la soluzione del problema politico tramite mezzi economici“), viene da chiedersi se quella degli esponenti della Scuola Austriaca sia anche una soluzione del “problema teologico-politico“.

Si potrebbe così iniziare notando che gli Austriaci non sembrano interessati a sviluppare una “critica della religione“, né a regolare la vita delle istituzioni ecclesiastiche nella società e i loro rapporti col potere politico, e neanche a dimostrare la non esistenza di una qualsiasi divinità, bensì a propendere per una dimensione filosofica che non prende in considerazione la questione della Rivelazione.

Sembrano aldilà dell’ateismo: Dio non è più un problema e la religione è soltanto uno dei tanti fenomeni sociali che possono produrre conseguenze inintenzionali e indesiderate.

Persino catastrofiche.

Per di più, se anche un Dio esistesse e si fosse manifestato, sui contenuti della Rivelazione non ci sarebbe modo di evitare incomprensioni ed errori che ne renderebbero problematica l’applicazione.

Come mostra il fatto che della Rivelazione gli uomini hanno fornito tante e non sempre complementari interpretazioni le quali, il più delle volte, non soltanto non reggono ad una critica razionale, ma sono pure motivo di controversie che hanno la tendenza a trascendere dalla dimensione dell’ermeneutica a quella della politica e del conflitto tra religioni e tra confessioni.

Inoltre, sempre per alcuni degli Austriaci, se il fondamento delle scienze sociali è la teoria delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, i contenuti e i fini attribuiti alle rivelazioni non sembrano in grado di eliminarle e di ridurle.

Al di là delle opinabili interpretazioni del messaggio, resta così il fatto che se l’uomo non può conoscere il funzionamento della mente umana, a maggior ragione non potrà conoscere e comprendere una mente superiore alla sua e che pertanto ipotizzarla serve a ben poco.

Non risolve il problema della manchevolezza propria della spiegazione del mondo offerta dalla religione.

Queste sono estrapolazioni fondate sui testi ma forse opinabili.

In realtà, dalla scoperta di una teoria generale dell’azione umana (“la teoria dei valori soggettivi“) della cui originalità e potenzialità erano comprensibilmente fieri, gli Austriaci non traggono nessuna inferenza esplicita e diretta concernente Dio e la religione.

E si potrebbe anche aggiungere che tra gli argomenti trattati nelle loro opere lo spazio dedicato alla religione è indubbiamente esiguo.

Tant’è che nessuno studioso di “cose austriache“ se ne è occupato in modo specifico se non per affermare, senza addurre argomentazioni adeguate e neanche convincenti “pezze d’appoggio“, che la loro filosofia sociale (intendendola come comprensiva di teoria economica, filosofia politica e teoria delle istituzioni e delle norme giuridiche ed etiche) sia compatibile col Cristianesimo, in specie cattolico, e, addirittura, da esso derivato.

Quasi un caso di “secolarizzazione“.


L’autore di questo libro rispetta (se non altro perché condivisa da cari amici) tale tesi ma non la condivide perché, come Friedrich von Hayek, pensa che si abbia, e soprattutto oggi, “ancora bisogno di una filosofia politica capace di andare aldilà dei precetti fondamentali ma generali forniti dalla religione o dalla morale”.

Sulla possibilità da parte della filosofia politica di soddisfare tali bisogni si possono ovviamente nutrire dubbi; soprattutto se la si intende troppo strettamente connessa alle sue espressioni o a certi suoi esponenti dei secoli scorsi.

Chi scrive, comunque, condivide la tesi hayekiana nella quale si manifesta l’idea che la filosofia (persino quella sua branca spuria e ossimorica che è la filosofia politica) possa essere un sapere maggiormente comprensivo e più aperto e duttile di quello della religione e della morale.

Proprio perché si vive in un mondo, quello occidentale, nel quale la religione non ha più la rilevanza che aveva fino a pochi decenni orsono.

Di conseguenza (ma senza prendere per oro colato neanche la filosofia hayekiana), prendendo criticamente le mosse dalla sua delineazione della “vera tradizione individualistica“ (e perciò dalla teoria austriaca della nascita, dello sviluppo e della funzione delle istituzioni sociali), analizzando il modo in cui gli Austriaci trattano della religione si cercherà di fornire una risposta alla domanda se la loro filosofia politica possa configurarsi anche come una soluzione del “problema teologico-politico“.

Più in generale, ci si chiederà quale sia la sua potenzialità per affrontare i problemi dell’individuo nel mondo d’oggi.

Problemi talora inaspettati e comunque diversi da quelli dell’epoca in cui vissero anche i più giovani esponenti della Scuola Austriaca, per i quali si trattava, in definitiva, di reclamare lo spazio della libertà di pensiero e di ricerca da parte di un’elite di atei e di non credenti in una società in cui le credenze religiose e clericali erano diffuse e radicate e nella quale l’influenza delle Chiese non era paragonabile a quella che si ha nelle attuali società atee di massa.

Si potrebbe certamente obiettare che è un ben strano modo di procedere quello di voler far rispondere taluni a domande poste da altri, riguardanti questioni rispetto alle quali quelli non manifestavano interesse.

Ma si potrebbe anche dire che si farebbe un torto a tutti se si pensasse che il rapporto tra Rivelazione e Filosofia e tra Teologia e Politica sia un problema al quale ci si possa facilmente sottrarre sostenendo “non è il mio!“.

Comunque sia, dato che la religione è un po’ come le conseguenze inintenzionali (non si riesce a farne a meno perché anche chi ci riesce finisce col doversi confrontare con chi non ci riesce), chi scrive è del parere che - seppure la questione della religione e quella relativa a quale sia la migliore rimangano aperte e siamo complementari a quella se si possa fare a meno della politica e se questa possa fare a meno della religione - il problema dello spazio della religione in società che prevalentemente non sono religiose sia uno dei problemi principali del nostro tempo e che tale resterà anche nel futuro che si riesce ad immaginare.

Per di più si tratta di un problema che è anche sostanzialmente analogo a quello che si pone la tradizione individualistica: fino a che punto possiamo e dobbiamo essere soggetti a scelte collettive?

La tendenza dei tempi è purtroppo quella di non riconoscere e di non porre loro limiti.

Ed è proprio per scongiurare tale nuova tipologia di tirannide che l’individuo della tradizione individualistica e la persona della tradizione cristiana dovrebbero escogitare nuove sinergie per non finire schiacciate dall’ennesima ripresa di quel “male endemico della politica “ che altri, non rendendosi conto delle conseguenze del non assegnarle limiti diversi da quelli legali, si erano illusi di aver sconfitto con la democrazia.

Forse perché convinti che la religione non avesse niente da temere dal liberalismo, ed in particolare dal loro, gli Austriaci erano consapevoli che il Cristianesimo non fosse il loro nemico; ma sapevano anche che troppi cristiani nutrivano verso il liberalismo un’avversità che non riuscivano a spiegarsi perché non riuscivano a capirne il motivo.

Se si dovesse identificare la posizione degli Austriaci nei confronti della religione con quella di Ludwig von Mises, si potrebbe dire che tale insofferenza fosse dovuta all’epicureismo di Mises e all’appoggio delle Chiese alle dottrine socialistiche.

Il fatto che a quella professione di fede nessun “Austro cattolico“ abbia dato peso induce così - unitamente alla circostanza che nessuno si è mai accorto che gli Austriaci elaborano una teoria generale dell’azione umana in cui la religione è soltanto una delle possibili varianti - a tornare sulla questione del perché da secoli i rapporti tra Cristianesimo e liberalismo siano talmente problematici.

Non si ha la pretesa di spiegarne i motivi e di valutarli, ma ci si limita a constatare che nonostante il fatto che molti pensatori cristiani (liberali o meno che siano) ne abbiano studiato le ragioni, e che lo stesso abbiano fatto molti esponenti e studiosi del liberalismo, la situazione rimane incerta.

Dall’alto della loro millenaria storia, le gerarchie ecclesiastiche hanno mostrato un certo disdegno nei confronti di quella che hanno considerato soltanto come una forma di regime politico-economico.

E questo le ha portate a non attribuire particolare attenzione a quel che sulle motivazioni e sugli esiti dell’azione umana ha messo progressivamente in luce il liberalismo e soprattutto quello “austriaco“.

Non sono mancate le voci che in campo cristiano e soprattutto cattolico si sono levate a favore di una maggiore e più attenta reciproca considerazione, ma, quando attenzione c’è stata, la risposta delle gerarchie ecclesiastiche è stata tutto sommato superficiale perché hanno pensato che, pur non essendo disprezzabili, quelle nuove conoscenze sull’azione umana e sulle sue conseguenze necessitassero semplicemente di una “iniezione” di eticità.

Ma le cose non sono così semplici.

Una ricomposizione delle pagine dedicate alla formazione della tradizione individualistica e alla religione mostra in realtà come, nutrendo la convinzione che la religione fosse soltanto una delle componenti della condizione umana, e forse neanche quella più importante, gli Austriaci ne avessero elaborato una teoria alternativa e “migliore“ non soltanto di quelle delle altre tradizioni della filosofia politica, ma anche di quella della religione cristiana.

Alla quale, è vero, offrono un ramoscello d’ulivo, ma senza rinunciare a nulla riguardo alle proprie tesi.

E nella convinzione che fosse interesse primario della Chiesa accettarlo giacché quel compromesso era certamente utile per fronteggiare i comuni nemici, ma anche per evitare la trasformazione della religione in una religione civile e in una dottrina sociale.

Ma mentre gli Austriaci quei nemici li avevano individuati, la Chiesa non c’è riuscita; ed ha anzi ceduto alla tentazione di giocare le varie tradizioni della filosofia politica moderna le une contro le altre, senza sviluppare una dottrina sociale che fosse in grado di porsi come una reale alternativa alla modernità.

Per di più, anche ora che la sua influenza politica appare un barlume di quella che fu, e che deve continuamente lamentarsi di decisioni politiche e legislative decisamente avverse ai suoi principi etico-religiosi, la Chiesa cattolica non cessa di indicare il mercato come la causa dei mali del mondo.

La tesi che qui si avanzerà è pertanto che alla domanda se il loro liberalismo si possa configurare come una soluzione del “problema teologico-politico“ gli Austriaci, convinti di aver elaborato una “teoria generale dell’azione umana“, avrebbero probabilmente risposto affermativamente.

E questo in considerazione del fatto che non pensavano ad un mondo privo della religione perché erano convinti che la loro filosofia sociale potesse comprendere la religione come una tra le tante varianti, senza che la validità ne fosse limitata.

Salvo poi essere costretti a dare una risposta affermativa anche alla domanda se la ragione come da loro intesa (ovvero limitata e fallibile alla maniera di Hume) possa sostituire la religione.

Ciò che induce anche a chiedersi come la loro filosofia si configuri e si ponga nei confronti di un mondo, come quello occidentale odierno, senza religione.

Viene così da chiedersi quale possa mai essere il ruolo e la funzione della filosofia politica in un mondo orfano della sua tradizionale antagonista; di quella religione la quale, se non altro, aveva avuto una considerevole e forse determinante influenza sulla civiltà occidentale e con la quale, dall’esordio della “modernità“, aveva tuttavia ingaggiato una battaglia avente per oggetto la pretesa di stabilire quale fosse la miglior soluzione al problema dell’incertezza umana.

Lungi dalla condivisione di una qualsiasi ipotesi di secolarizzazione, chi scrive è però convinto che il concetto occidentale di “politica“, per quanto non sia riducibile al Cristianesimo e ne sia anzi una contestazione che sfocia in una diversa concezione della natura e delle finalità dell’uomo e della politica, non possa essere visto, e men che meno compreso, senza la sua relazione col Cristianesimo.

E soprattutto che una eventuale “evaporazione“ della sua influenza sociale imponga un radicale ripensamento della prassi politica perché finisce col delegare alla sola politica il gravoso compito di vigilare sulla formazione delle aspettative individuali e sociali, di valutarle, e di trovare giustificazioni per l’esercizio di quella coercizione che, se si sceglie la modalità delle scelte collettive, è indispensabile (anche perché finora non si è dimostrato in maniera convincente che se ne possa fare a meno) per realizzare il “miglior ordine politico“.

In altre parole, per attribuire alla politica compiti che nel passato erano condivisi (sia pure in parte e con esiti discutibili) anche con la religione, con l’etica e con le Chiese.

Di modo che la politica, per effetto, forse inintenzionale, della propria pretesa di porsi come la migliore soluzione del problema dell’incertezza, si trova a dover svolgere il compito che si è attribuita in una situazione in cui la tradizionale funzione di moderare le aspettative individuali e sociali è resa evanescente dall’impossibilità di esercitare un controllo sulla loro genesi.

In un mondo in cui alla politica viene attribuita la funzione di realizzare quelle aspettative, che vengono anche definite “diritti umani“ e delle quali, comunque, la politica non controlla né la genesi né la diffusione e le trasformazioni, pur venendo valutata sulla base della sua capacità di realizzarne il maggior numero nel minor tempo e al minor costo.

L’idea di fondo della tradizione utilitaristica intesa come realizzazione politica delle aspettative individuali (sia pure, e limitatamente, di quelle considerate razionali), finisce pertanto - sia pure ed ancora una volta - “contro le intenzioni di quei suoi sostenitori” che pensavano di controllarne le possibili degenerazioni con l’educazione, l’etica e la costituzione, nel “collettivismo” e successivamente nella liquefazione della politica e nella sua trasformazione in uno strumento per realizzare aspettative non sottoponibili ad una critica razionale.

Al “popolo sovrano“ può così passare in mente tanto che un “bene pubblico“ è tale se lo vuole e se viene confermato da un risultato elettorale, quanto che si possa abolire la povertà per decreto e forse, domani, che sia anche possibile, magari con una riforma costituzionale, modificare le fasi lunari.

Nulla pare più impossibile, e il popolo sovrano non ha, né pare riconoscere, limiti.

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