top of page
  • Immagine del redattorelibertus65

123 - SCUOLA AUSTRIACA E RELIGIONE - Seconda parte

Da “Individualismo e religione nella Scuola Austriaca”, di Raimondo Cubeddu, 2019, Introduzione, pag. 16 - 25


In questo modo, una Hybris che paradossalmente si sviluppa contemporaneamente al declino demografico dell’Occidente e ancor di più di quello cristiano, e che soltanto in parte può essere attribuito al liberalismo, lascia comunque una conseguenza inintenzionale ed indesiderata che si rivela un boccone decisamente amaro per quanti si erano illusi di essere usciti vincitori dal secolare conflitto con la religione.

E ci si potrebbe anche chiedere se tale processo degenerativo abbia una qualche relazione con la caduta della pratica religiosa.

Ma poiché si è iniziato con la citazione di un pensatore che pur avendone fornito la definizione migliore aveva scarsa simpatia per il liberalismo, e si è proseguito rammentandone la definizione di “critica della religione“ si potrebbe anche - prima di passare a dire due parole sul conflitto tra religione, politica, economia e scienze in merito ai modi di ridurre l’incertezza umana - ricordare la quasi profetica previsione di Strauss circa la situazione in cui si sarebbe trovato l’Occidente qualora uno dei due protagonisti del problema teologico-politico fosse venuto a mancare.

Il fatto è che è avvenuto ciò che Strauss, pur ritenendola una catastrofe, non immaginava potesse avvenire; nello spazio di mezzo secolo e senza che nessuno, nemmeno gli Austriaci, si curasse delle possibili conseguenze.

Si pensava, in altre parole, che il mondo secolarizzato prodotto dal trionfo del relativismo sarebbe stato migliore se non altro perché avrebbe eliminato i conflitti connessi alle conseguenze da trarre dalla risposta alla domanda “qual è la religione migliore?”.

Detto che il comprensibile orgoglio - per altro non scalfito dal fatto di non essere universalmente riconosciuto - aveva forse evitato agli Austriaci di chiedersi non tanto se fosse possibile un mondo senza religione, quanto se il liberalismo (anche il loro) fosse possibile in un mondo privo della religione, è però il caso di chiedersi se la loro proposta per “ridurre l’incertezza“ tramite mezzi economici sia tuttora valida.

Una validità che deve essere indagata tenendo conto che si vive in un mondo nel quale, se si vuole limitare l’uso generalizzato e costoso quanto inefficace di strumenti coercitivi, e se non si dimostra che nel lungo periodo i processi di formazione delle aspettative non hanno conseguenze sul funzionamento e sull’efficienza di un ordine politico, ci si deve occupare con strumenti concettuali nuovi.

Anzitutto con elaborazioni teoriche che hanno ben poco a che vedere con le tradizionali distinzioni tra aspettative naturali ed artificiali, razionali o irrazionali, legittime o meno.

E così, nel mondo della democrazia politica e della mancanza di limiti alle aspettative individuali e sociali e alle scelte collettive, è il caso di chiedersi se, oggi, una filosofia sociale “neo austriaca“ (nella quale la funzione di avanzare previsioni sulla realizzabilità e il costo delle aspettative è affidata al mercato) posso ancora considerare la religione semplicemente come uno dei tanti fenomeni sociali con cui fare i conti.

Ciò da una parte induce a chiedersi quale sia il “costo sociale“ del dover fare a meno del ruolo di “moderazione“ delle aspettative individuali e sociali che per secoli la Chiesa ha esercitato con la sua dottrina del “giudizio universale” e, da un’altra parte, a domandarsi se la soluzione del problema dell’incertezza fornito dalla dottrina economica austriaca si possa considerare migliore di quella fornita dalla religione cristiana.


In via preliminare si può osservare che comunque quella “moderazione“, esercitata talora con modalità e per finalità oggi difficilmente condivisibili, è stata tutt’altro che esente da conseguenze inintenzionali.

Per di più, se la prospettiva religiosa ed etica nella quale veniva attuata aveva dato risultati controversi, i risultati politici lo sono stati in misura anche maggiore.

Senza poi dire che l’influenza della dottrina politico sociale cristiana è stata fortemente ridimensionata dall’avvento di quella modernità della quale - come si vedrà - parla (ma ovviamente non è il solo) Mises.

E si potrebbe pure aggiungere che se la soluzione austriaca al problema dell’incertezza incorpora la questione tempo, quella religiosa lo esclude rinviando il giudizio definitivo sull’azione umane ad un momento privo di tempo come quello “post giudizio universale”.

Certamente si possono deprecare tempora et mores,ma indubbiamente si tratta di un rinvio che non agevola la produzione di certezza “hic et nunc”; ovvero in quel lasso temporale nel quale, piaccia a meno, l’individuo vuole oggi - e la sua presunta “disperazione”, quali ne siano la natura, le cause e la dimensione, ne accresce soltanto il bisogno - soddisfare il desiderio di poter fare previsioni attendibili sulle possibilità, sui costi e sulle conseguenze della realizzazione delle proprie aspettative e del desiderio di migliorare la propria condizione.

In realtà quel che è diventato difficile da accettare è che quel tempo venga dalla religione spostato nell’aldilà.

Soprattutto quando la scienza, acquistando così sempre maggiore credibilità e prestigio come “produttrice di certezza”, lo radica sempre più in questo mondo e sembra offrire soluzioni maggiormente condivisibili.

Si potrebbe anche aggiungere che se ciò limita la possibilità di avvalersi della religione cristiana come uno “strumento“ per ridurre l’incertezza, rinunciare al ruolo di essere un autorevole interprete di come le azioni umane saranno valutate nel giudizio universale significa ridurre la religione cristiana ad una filosofia della religione e/o della morale.

Sostanzialmente negarle l’autorevolezza “non filosofica“ di interprete della Rivelazione.

Facile, a questo punto, osservare che si sta attribuendo un credito eccessivo alla “filosofia“ degli Austriaci.

Forse è vero.

Ma ognuno può confrontare la loro soluzione con altre e trarre delle conclusioni.

Pertanto, si potrebbe proseguire dicendo che, coerentemente alla loro considerazione della religione, la filosofia politica degli Austriaci non è una soluzione bensì la negazione della perennità del “problema teologico-politico”.

Se la questione fondamentale è il “problema dell’incertezza“ - un punto di partenza, è vero, filosofico e forse anche epicureo - la risposta della religione è inadeguata in quanto non politica.

Comunque sia, l’economia “soggettivistica“ austriaca non si propone di eliminare ma soltanto di ridurre l’incertezza (sostiene infatti che non tutte le aspettative potranno essere soddisfatte e che non si sa in che misura, quando, a che costo e con quali conseguenze inintenzionali) tramite scelte individuali e non collettive, liberi scambi e quel particolare ambito di cooperazione che è il mercato.

Lo scambio è indubbiamente lo strumento fondamentale ma, come già mise in luce il fondatore della Scuola Austriaca (Carl Menger), per quanto naturale e principale strumento per soddisfare bisogni che mutano nel tempo in maniera difficilmente prevedibile, esso rimane una possibilità.

Può non realizzarsi e lasciare i bisogni insoddisfatti.

Se si volesse intendere la filosofia sociale “austriaca” come una modalità di riduzione dell’incertezza, si potrebbe anche dire che essa sviluppa un atteggiamento più realistico rispetto alle mirabolanti promesse della politica “democratica“, la quale può giustificare la propria pretesa di essere in grado di far coincidere interessi individuali e collettivi o rimodellando e moderando le aspettative individuali (ciò che però necessita di una teoria morale della coercizione), o affidandosi interamente alla scienza.

Si potrebbe tuttavia anche sostenere che, come nella religione cristiana i sacerdoti non possono fare previsioni sulla misericordia divina, così la filosofia sociale “austriaca” non specifica esattamente quali aspettative si realizzeranno; ovvero che entrambe sono modalità prudenziali di riduzione del problema dell’incertezza tramite esempi e regole che hanno funzionato.

Ma se quanto ora detto potrebbe configurarsi come la base di quel compromesso invocato da Mises e da Hayek, esso viene respinto dalla Chiesa perché convinta che la retta applicazione delle regole morali specificate dalla religione sia la modalità privilegiata per la riduzione dell’incertezza (soprattutto riguardo la possibilità della vita eterna).

E questo dovrebbe implicare (cosa che in realtà non avviene e che già sapeva il vero precursore degli Austriaci, ossia Bernard de Mandeville) che le azioni corrette tendenti al conseguimento di finalità buone perché etiche o come tali definite dalla religione, abbiano un numero di conseguenze indesiderate minori, richiedano meno conoscenza (che essendo “rivelata“ ha un costo di produzione e di acquisizione inferiore) e abbisognino di minor tempo per conseguire il fine.

In realtà tutto questo non avviene, e gli Austriaci lo mostrano sia con l’esempio del socialismo (del quale mettono anche in luce le componenti etiche e le derivazioni religiose più o meno secolarizzate), sia chiedendosi quale sia in realtà la dottrina sociale ed economica della Chiesa e sulla base di che cosa si potrebbe dire che è migliore delle altre.

Ma anche se abbia, in senso proprio, una “teoria del capitale“.

In mancanza della quale la naturale scarsità di beni potrebbe essere fronteggiata soltanto o incidendo sulle aspettative o reprimendo i comportamenti non finalizzati al raggiungimento di un obiettivo molto sfuggente come quello di “bene comune“, per realizzare il quale, senza la catallassi, sarebbe necessario un coordinamento artificiale, esatto ed immutabile, dei comportamenti individuali.

Un coordinamento che può ottenersi soltanto tramite la coercizione, ovvero con un uso non riproduttivo di capitale, che finirebbe per accrescere la scarsità e che genererebbe una conflittualità individuale e sociale gestibile soltanto col controllo della genesi delle aspettative, con la loro “correzione“ tramite un’educazione di massa (estremamente costosa, non trasmissibile e per di più, a sua volta, possibile creatrice di nuove e non previste aspettative) o con la loro repressione.

A questo punto di vista, quello filosofico politico, la domanda quale sia la “teoria del capitale“ della religione cristiana è dunque una domanda cruciale quanto quella se la filosofia possa escludere l’esistenza di Dio dal suo ambito di ricerca.

In una prospettiva “austriaca“, se non vi si risponde l’intera dottrina sociale cristiana non è che un’illusione.

Da un altro punto di vista, se la religione, la politica, la filosofia, l’economia e la scienza sono i principali sistemi di riduzione dell’incertezza, e senza neanche tentare di fare una sommaria elencazione delle rispettive caratteristiche e dei relativi pregi e difetti, si potrebbe osservare che mentre le prime due tendono ad assumere una posizione “monopolistica“ (ad esempio negando la validità di altri tipi di sapere e sostenendo la tesi della loro inferiorità teoretica e pratica) e possono cooperare con qualsiasi delle altre soltanto relegandole in una posizione subordinata (ad esempio la filosofia come “ancella della teologia“), le “figlie” della filosofia sono più aperte e collaborative.

Una collaborazione che magari non ha risolto il problema dell’incertezza, ma che ha indubbiamente migliorato la condizione umana.

Il problema, in pratica, è se si tratta di migliorare la condizione umana, se lo si può tentare, o se si tratta principalmente di “salvare l’anima“.

Oppure, ancora, se tra le due sia possibile trovare una sintesi e quale sia la relazione fra i tentativi di migliorare la condizione materiale dell’uomo e il proposito di salvare le anime.

In altre parole, se è vero, come sostiene Mises, che il liberalismo non si occupa dell’aldilà e neanche delle forme sociali atte a raggiungerlo, quel che bisogna chiedersi è se la religione sia compatibile con l’eudemonismo, inteso come tentativo individuale di migliorare la propria condizione.

Si dirà che la teoria secondo la quale ogni essere vivente cerca incessantemente, nel tempo e con gli strumenti e la conoscenza di cui dispone, di migliorare la propria condizione è già una precisa scelta che, pur non escludendo la religione, affonda in una concezione filosofica, quella eudemonistica di stampo epicureo-lucreziana, che da sempre, e Mises lo ribadisce, è avversata dal Cristianesimo, e comunque intimamente anticristiana e tendente ad interpretare la religione sostanzialmente come un qualcosa di cui liberarsi.

Nel rispondere che questo problema esiste e che le origini della Scuola Austriaca più che nel Cristianesimo possono essere individuate nell’epicureismo (del quale nelle loro opere si può comunque cogliere un’aria), è bene però anche ricordare che nessuno degli Austriaci pensò mai che la religione dovesse essere estirpata, neanche in quanto produttrice di conflitti.

Più semplicemente, gli esponenti della Scuola Austriaca pensavano che sulle idee, sulle teorie e sulle credenze che muovono gli uomini non fosse il caso di intervenire; anche perché sarebbe stato inutile.

Convinzione alla quale si può obiettare che la riduzione del problema della religione a “problema privato“ delimitabile in un’astratta e sfuggente “sfera privata“, la quale si regge sulla credenza che esistano azioni individuali che non abbiano conseguenze sociali, è in realtà possibile soltanto e se si pensa che quello “teologico-politico“ sia un problema risolvibile.

Ovviamente eliminando o Dio o la filosofia politica.

Solo che il problema è che Dio è morto, e che non è stato ucciso.

Una morte che tuttavia non lascia inalterata la filosofia e che, consegnandole il successo al termine di una cruenta lotta protrattasi per secoli, ne scarica le conseguenze sulla filosofia politica che viene così a trovarsi in una condizione alla quale non era preparata e senza poter più contare (come si è detto, e come era abituata a fare magari senza riconoscerlo) sull’aiuto della religione nel moderare le aspettative individuali e sociali, nella produzione di codici etici o comportamentali i quali, in un ambiente socialmente e religiosamente omogeneo, rendevano plausibile un calcolo probabilistico delle conseguenze delle azioni individuali e sociali e una selezione delle aspettative sulla base di valori identitari e condivisi.

Per quanto inconfessabile, e una delle contropartite fu la trasformazione di peccati in reati, la sinergia era piuttosto forte anche quando non esplicitamente affermata o ammessa.

La tendenza attuale è invece di pensare che la Chiesa non ne ricavasse nulla e che quindi, ora, della sinergia con il liberalismo in particolare non c’è più bisogno.

E come la “Chiesa dei poveri“ sembra illudersi di non aver più bisogno di una “teoria del capitale“, e la libertà di quella proprietà che produrrebbe disuguaglianze anziché riduzione dei conflitti, così molti liberali non hanno più bisogno della religione e ancor meno di una Chiesa che sembra non aver più interesse per l’Occidente e che indica nel mercato il responsabile dei mali del mondo, di un individualismo sfrenato e nichilistico e della povertà.

Sembra così che, senza comprenderne la logica, la Chiesa neghi che il mercato sia un processo di conoscenza e di scoperta il quale presuppone un’unica condizione immodificabile: quella della limitatezza, imprevedibilità ed incertezza del tempo di cui gli esseri umani dispongono per realizzare fini “terreni” in maniera autonoma o cooperativa.

Ciò potrebbe indurre a chiedersi se sia morto Dio, o se, più semplicemente, i suoi ministri non abbiano capito la situazione che si è determinata come esito di quella modernità che avevano esorcizzato, combattuto ed infine implicitamente accettato, appiccicandole l’etichetta di “processo di secolarizzazione“.

Perché, se così fosse, quell’interpretazione del messaggio della Rivelazione del quale erano così orgogliosi e per il quale molti hanno pagato come testimoni e come vittime, non li ha aiutati.

Ma se la Provvidenza è imprevedibile come la Invisible Hand, ed è di scarso aiuto in situazioni di continui cambiamenti, su che cosa si fonda la rivendicata superiorità della dottrina sociale della Chiesa?

Gli Austriaci pensano si possa fare a meno tanto della Provvidenza quanto della Invisible Hand e, più o meno consapevoli del problema e dell’incapacità della religione di essere d’aiuto alla filosofia politica, pensano e sperano di ridurre l’incertezza tramite la loro “economia soggettivistica“.

Una teoria economica che, concependo il denaro come materializzazione del tempo, consente di ridurre quello di attuazione delle aspettative, della coercizione e anche la realizzazione di un numero maggiore di aspettative.

Ma la questione del tempo è fondamentale anche per uscire da una dimensione trivialmente edonistica dell’attività economica.

In effetti, ponendosi il problema di soddisfare i bisogni anche nel futuro, e non soltanto nel momento in cui affiorano, si finisce, lo si voglia o meno, se ne sia o no consapevoli, anche per elaborare un’alternativa alla soluzione del problema dell’eternità.

E così, poiché la catallassi riduce il tempo e consente di migliorare le previsioni per il futuro, gli Austriaci non hanno più bisogno della religione e pensano che la politica e la scienza non siano alternative ma sussidi a quel proposito di riduzione del tempo e di affinamento delle previsioni.

Succede però che nel momento in cui se ne affievolisce l’influenza, la religione si trasforma in una teoria dei diritti umani.

Diventa antagonista dell’economia e della politica sul loro stesso terreno.

Abbassa la sfida dal regno dei cieli a questo mondo, e coltiva il proposito di sostituire l’antropologia dello scambio propria del mercato con quella (molto più evanescente e controversa) del dono.

Un “neo austriaco“ si ritrova di fronte questa situazione.

I padri lo aiutano poco perché il loro discorso, come quelli di tanti altri filosofi del Novecento, si reggeva sulla tenuta della religione.

E così, frantumatasi quella complementarietà sinergica con la religione che aveva caratterizzato una parte del liberalismo (o almeno quello non di origine epicureo-lucreziana-mandevilliana), subentra la convinzione che poiché la religione non aiuta a capire il mondo e produce non identità ma controversie e guerre, se ne possa anche fare a meno o la si possa ridurre a “religione civile”.

In questo modo, nella fase storica del declino della rilevanza sociale della religione e della mancanza di limiti del potere (purché “democratico”), la politica finisce per essere accreditata come il sistema di riduzione dell’incertezza più veloce perché soggetto soltanto ad una volontà umana che poco si cura della scarsità di risorse rispetto a fini illimitati riguardo ai quali, dopo l’incontenibile proliferazione di “diritti umani“, non si ha più possibilità di governo.

Senza la religione nessuno può più “moderare le aspettative“ individuali e sociali.

Neanche con la repressione.

Quando in “Teoria e storia“ Mises scrive che se anche gli uomini fossero oggetto di una Rivelazione, potrebbero non interpretarne contenuti e dettati nello stesso modo, enuncia una critica molto forte alla religione e alla sua pretesa di essere una “guida“ per l’uomo.

Una critica che si può trovare implicita anche negli altri “Austriaci” e che ha una portata dirompente perché non mette in discussione la possibilità di un Dio e di una Rivelazione, ma la loro influenza dato che, per un essere umano dotato di una conoscenza e di una ragione limitata e fallibile, le possibilità di errore sono imprecisabili.

Se anche esistesse, Dio sarebbe incomprensibile e la Rivelazione cristiana, aldilà di un giudizio sul contenuto, sarebbe comunque inutile data la possibilità di interpretazioni alternative che sarebbero, e che sono storicamente state, inesauribili fonti di conflitti.

Anche Dio, e si tratterebbe di un Dio epicureo-lucreziano, sarebbe in questo caso un “dato sensoriale“ frutto di una mente che non si è in grado di conoscere fino in fondo.

Il problema, detto diversamente, è se le “classificazioni“ di quel dato sensoriale, ammesso che possano essere imitate, possono servire a risolvere contingenze, o a spiegare il mondo meglio di altre e se il declino della religione non sia dovuto proprio alle lacune della sua capacità di spiegare il mondo.

Comunque sia, e se anche quanto finora detto fosse vero, rimane il fatto che nessuna classificazione di dati sensoriali può escludere il problema di Dio da quello di una conoscenza filosofica del mondo.

15 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

120 - DIVISIONE DEL LAVORO E SOCIETÀ

Da “Socialismo”, di Ludwig von Mises, 1922, pag.323-324 La divisione del lavoro è un principio fondamentale di ogni forma di esistenza....

Comentarios


bottom of page