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70 - LIBERISTI E CONSEQUENZIALISTI

Immagine del redattore: libertus65libertus65

da “Liberisti o socialisti ? Tertium non datur”, di Enrico Colombatto, 2021, Introduzione


L’impostazione liberista riconosce che l’azione individuale segue “il desiderio di migliorare la propria condizione, che è innato e ci accompagna fino alla tomba”, come scrisse Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni; considera legittima ogni azione compatibile con i diritti fondamentali dell’individuo (il diritto di non essere costretto con la forza o con l’inganno ad agire contro la propria volontà); ammette interventi coercitivi qualora si ravvisino violazioni di tali diritti.

È questo il cosiddetto “sistema di libertà naturali”, quello che impone il minor numero di modificazioni a quanto di fatto si può verificare, ovverosia riduce le situazioni di incompatibilità tra comportamenti possibili e comportamenti dovuti.

Secondo l’impostazione consequenzialista, invece, si esaminano le conseguenze di un’azione, e la si ammette o si impedisce a seconda della desiderabilità degli effetti che essa produce.

In questa seconda prospettiva, pertanto, una collettività si dota degli strumenti che ritiene opportuni per analizzare e confrontare i risultati delle azioni individuali, la loro desiderabilità e le misure correttive eventualmente necessarie.

In questa impostazione si riconoscono utilitaristi, collettivisti, conservatori, nazionalisti, progressisti, riformatori, eccetera.

Essa giustifica e dà contenuti al ruolo dell’autorità di politica economica, la quale nelle società moderne ha il potere di prendere iniziative proprie e sostituirsi all’azione o alla mancata azione dei singoli.

Per chiarezza e coerenza, nelle pagine che seguono si sostituiranno le espressioni “sistema di libertà naturali“ e “consequenzialismo“ con i termini, rispettivamente, “liberismo“ e “socialismo“.

Non ci sono vie di mezzo, poiché si tratta di distinguere tra una visione in cui la società nasce per volere dell’individuo, e una in cui la società ha fini propri che prevalgono su quelli individuali.

Dunque, per i liberisti, i diritti individuali non possono essere mai violati, se non per legittima difesa o per compensare i danni subiti a seguito di un’aggressione.

Per i socialisti, invece, il bene comune prevale sulle preferenze individuali.

Naturalmente, l’idea di bene comune non si riduce a un mero calcolo aritmetico dei vantaggi e degli svantaggi che un’azione comporta per i membri di una comunità, calcolo del resto impossibile.

In effetti, si risolve -o meglio si evita- il dilemma del calcolo impossibile conferendo a un’autorità il potere di decidere che cosa sia il bene comune, e in quale misura tale bene giustifichi la violazione delle preferenze individuali.

Tale presunta soluzione, tuttavia, rende la definizione dell’interesse collettivo di fatto irrilevante.

In un contesto socialista, infatti, il vero oggetto del contendere è individuare e legittimare chi ha il potere di decidere che cos’è il bene comune, come scrisse Vilfredo Pareto nel “Trattato di sociologia generale” e ha recentemente ricordato, tra gli altri, Thomas Sowell.

Senza dubbio, oggi viviamo in un mondo socialista.

Ciò è evidente se si pensa ai regimi dittatoriali, ove il bene comune è definito dal dittatore in carica; oppure ai regimi populisti (che sono diversi da quelli demagogici), ove l’aspirazione a fondere le preferenze del singolo con la volontà dello Stato giustifica il cosiddetto Stato etico.

L’impronta socialista caratterizza anche le moderne democrazie occidentali.

Per esempio, non è certo liberista un contesto dove l’autorità in media sottrae all’individuo quasi il 42% del prodotto interno lordo; ove la regolamentazione è pervasiva e crescente; e ove le banche centrali non si fanno scrupoli di manipolare il settore bancario e, in generale, i mercati finanziari.

In altri termini, e con buona pace di coloro che si scagliano contro il presunto neoliberismo imperante, le società moderne condividono senza riserve e con crescente entusiasmo il credo socialista, che può assumere diverse gradazioni e condurre a risultati più o meno soddisfacenti.

Con ben poche eccezioni, si è convinti che spetti allo Stato decidere quale sia il grado di regolamentazione e imposizione fiscale desiderabile, eventualmente dietro il velo di una tecnocrazia compiacente; si ritiene che sia opportuno aumentare le competenze dello Stato quando una collettività versa in situazioni critiche; si ha fiducia nella possibilità che lo Stato, quando inefficiente, riformi e rinnovi sè stesso, magari scoprendosi imprenditore.

 
 
 

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