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83 - ROTHBARD CRITICO DI HAYEK E MISES

di Roberta Adelaide Modugno (dalla rivista Civiltà delle Macchine, 2011)


Il libertarismo, così come lo conosciamo oggi, una variante del liberalismo classico, è un movimento politico americano che ha avuto origine dopo la seconda Guerra Mondiale.

Murray N. Rothbard, filosofo, storico ed economista, fu il principale esponente del libertarismo.

In termini generali il libertarismo ha portato alle estreme conseguenze l’opposizione al New Deal di Franklin Roosevelt e al socialismo del Partito laburista inglese, post-1945.

Forse la maggiore e più profonda espressione di tale opposizione è rappresentata dalla celebre opera di Hayek, La via della schiavitù, che avvertiva che i modelli di pensiero dei sostenitori del welfare state non facevano altro che riproporre quelle pericolose idee che erano state tipiche degli intellettuali continentali nel periodo che aveva poi condotto alla guerra.

Questi intellettuali, tra i quali Karl Mannheim, che per Hayek era stato il maggiore responsabile, arrivavano fino al punto di sostenere la soppressione della libertà al fine di porre in essere i loro piani economici.

Con tale atteggiamento, spiega Hayek, costoro spianarono la strada alla follia totalitaria della Germania nazista.

La tesi di Hayek dette luogo a molte controversie, ma un gruppo di pensatori ritenne che questi non fosse andato sino in fondo.

Hayek, infatti, sebbene critico nei confronti di qualunque economia pianificata, lasciava uno spazio sostanziale per l’intervento dello Stato nell’economia.

Criticò espressamente il laissez-faire sostenendo che un autentico libero mercato necessita comunque di un quadro giuridico per poter funzionare correttamente.

In La società libera fece molte concessioni all’intervento pubblico e a quei servizi pubblici essenziali tipici dello Stato assistenziale.

Libertari quali Murray Rothbard, la scrittrice Ayn Rand e Leonard Read, quest’ultimo responsabile della Foundation for Economic Education, ritenevano che queste concessioni alle idee contemporanee non fossero necessarie e fossero, in realtà, pericolose.

La filantropia volontaria, se ne avesse avuto l’opportunità, si sarebbe dimostrata sufficiente a svolgere i compiti dello Stato assistenziale e lo avrebbe interamente soppiantato.

Oltre a ciò, a loro avviso, obbligare per legge alcuni cittadini ad aiutarne altri era una violazione dei diritti di libertà e di proprietà degli individui.

La presa di distanza di Rothbard dalle tesi hayekiane, come si vedrà in seguito, divenne sempre più profonda andando ad investire le basi stesse di una società libera.

Ignoranza e fallibilismo, i punti di partenza di Hayek, non potevano, ad avviso di Ro- thbard, costituire una solida base per la libertà.

Murray N. Rothbard fu attratto dalle posizioni di libero mercato della Foundation for Economic Education ma, ben presto, sviluppò una sua variante molto originale e radicale di libertarismo.

Mentre seguiva il corso di dottorato presso la Columbia University iniziò a frequentare il seminario dell’economista austriaco Ludwig von Mises presso la New York University, divenendo un convinto sostenitore dell’economia misesiana.

L’economia misesiana si adattava molto bene al libertarismo.

Mises riteneva che tutti i sistemi economici diversi dal libero mercato fossero destinati al fallimento.

A questo punto Rothbard si chiese: dal momento che il libero mercato funziona così bene, perché mai dovremmo avere bisogno di un governo?

Agenzie di protezione private non potrebbero forse assumere i compiti tradizionalmente svolti dal governo?

Ad avviso di Rothbard, effettivamente, il libero mercato avrebbe potuto estendersi in questa direzione.

Questa conclusione pose Rothbard su di una posizione opposta rispetto a Mises.

Nell’imboccare questa strada Rothbard fu influenzato dagli anarco-individualisti americani del diciannovesimo secolo Benjamin Tucker e Lysander Spooner i quali,dal canto loro, si erano espressi contro il monopolio dell’uso della forza da parte dello Stato.

Quel che differenziava Rothbard dai suoi predecessori, tuttavia, era l’aver abbracciato i nuovi principi della Scuola austriaca di economia, unendo le due tradizioni di pensiero.

Nuovamente Rothbard prese le distanze dal suo maestro Mises riguardo i fondamenti teorici della sua filosofia politica.

Nella visione di Mises l’idea del diritto naturale era del tutto fuori questione dal momento che pretendeva di presentare preferenze soggettive come valori universalmente validi.

Al contrario, ad avviso di Mises, tutti i giudizi etici non sono altro che il frutto di scelte sempre soggettive e preferenze personali.

D’altro canto, per l’economista austriaco, la fallacia di ogni tentativo di intervento pubblico nel libero mercato può tranquillamente essere dimostrata senza bisogno di appellarsi a controversi giudizi di valore.

Il libero mercato può, infatti, essere difeso mostrando che le misure interventiste non sono in grado di raggiungere gli obiettivi dei loro sostenitori.

Il difensore del libero mercato, quindi, è immune dall’accusa di voler imporre le proprie preferenze soggettive a coloro i quali non le condividono.

Ad avviso di Rothbard, tuttavia, questo non era sufficiente.

Egli riteneva, al contrario di Mises, che l’etica fosse una scienza oggettiva.

Come ha spiegato in Power and Market e in L’etica della libertà, ogni individuo possiede se stesso.

Nessuno può costringere un altro individuo o minacciarlo di costrizione a meno che questi non inizi ad usare la forza contro altri.

Proprio in seguito a questa rielaborazione critica da parte di Rothbard delle tesi dei grandi protagonisti della Scuola austriaca, Hayek e Mises, sono emerse profonde differenze all’interno del libertarismo contemporaneo per quel che riguarda i fondamenti teorici dei diritti individuali e, più in generale, di una società libera.

In particolare Rothbard ha elaborato un proprio originale paradigma nell’ambito del liberalismo della Scuola austriaca.

Tra i libertari esistono differenze profonde non solo per quel che riguarda il ruolo da attribuire o meno allo Stato, ma pure da un punto di vista gnoseologico ovvero circa la fondazione teorica dei diritti degli individui e, di conseguenza, di una società libera. In che modo è possibile giustificare eticamente le proposte libertarie di una certa organizzazione sociale e politica?

E su quale base si fonda la difesa dei diritti?

Volendo schematizzare al massimo è possibile distinguere una corrente che si richiama all’esistenza di valori etici e diritti individuali oggettivi ed un approccio consequenzialista.

Nel primo caso la società libera viene difesa in quanto unica compatibile con valori e diritti razionalmente fondati.

A questo filone appartengono tutti quegli autori che, in vario modo, si rifanno a teorie fondazioniste dell’etica, tra cui Ayn Rand, teorica dell’oggettivismo, Murray N. Rothbard, principale esponente del libertarismo giusnaturalista, Douglas Den Uyl e Douglas Rasmussen che, pure, si richiamano alla tradizione del diritto naturale.

Nel filone consequenzialista, invece, la società libera viene difesa sulla base del fatto che questa è in grado di offrire un maggiore benessere, di soddisfare meglio le preferenze individuali e di fornire istituzioni più efficienti.

Fanno parte di questo filone quei teorici che difendono la libertà sulla base di considerazioni economiche e utilitariste, come ad esempio Ludwig von Mises, David Friedman, Leland B. Yeager, Charles Murray ma, pure, un contrattualista come Jan Narveson.

LA CRITICA AD HAYEK. DIRITTI STORICI E DIRITTI NATURALI

In più occasioni Rothbard ha criticato l’impostazione di Hayek, insieme evoluzionista e fallibilista. Già nei due Memorandum scritti per il Volker Fund rispettivamente nel 1958 e nel 1960 sull’opera di Hayek Constitution of Liberty emerge in maniera netta l’inconciliabilità delle premesse teoriche hayekiana e rothbardiana.

Hayek fonda le ragioni della libertà partendo da posizioni evolutive e fallibiliste che vanno inevitabilmente a scontrarsi contro giusnaturalismo e razionalismo, premesse queste ultime, della teoria anarco-capitalista di Rothbard.

Una delle manchevolezze dell’opera hayekiana sarebbe, ad avviso di Rothbard, l’avere completamente ignorato la tradizione del diritto naturale, anche laddove l’autore trattava teorici che, di fatto, furono grandi giusnaturalisti, come nel caso di John Locke.

Hayek sembrerebbe non rendere conto di una grande tradizione di pensiero, come quella del diritto naturale, che ha avuto un ruolo enorme in relazione alla crescita dell’idea liberale, alla salvaguardia di una sfera individuale intangibile, ai limiti al potere dello Stato e che tanto ha contribuito, vale la pena di ricordarlo, alla stessa storia del costituzionalismo, date le interconnessioni tra diritti naturali, contrattualismo e costituzionalismo.

In realtà il discorso è più complesso di quanto non appaia a prima vista.

Occorre, infatti, tenere presente il fatto che Hayek muove il suo discorso sul rule of law, e in generale sul diritto, da premesse evolutive.

Rappresenta una delle massime espressioni di quella tradizione dell’ordine spontaneo che si dipana dagli illuministi scozzesi Adam Smith e Adam Ferguson, per arrivare, passando per Edmund Burke, sino a von Savigny, Henry Maine, Menger e alla Scuola austriaca di economia.

In Hayek quel che è fondamentale è il concetto di evoluzione culturale, uno degli aspetti più originali del suo pensiero, un’evoluzione che riguarda la genesi e lo sviluppo di istituzioni, quali, tra le altre, la religione, il diritto, il mercato e, in generale, i sistemi autogeneratisi e autoregolantisi che vanno a formare la complessità della società.

In questo senso, per Hayek, i diritti non sono certo naturali ma, in quanto spontanei nella loro evoluzione, non possono dirsi neppure artificiali.

Punto di partenza nella riflessione hayekiana su questo tema è la falsa dicotomia tra naturale e artificiale, intendendo con il secondo termine il prodotto di un progetto deliberato, dicotomia che ha impedito la corretta comprensione del processo di evoluzione culturale che ha condotto alle nostre tradizioni e alla nostra civiltà. Esisterebbe invece una categoria intermedia di fenomeni risultato dell’azione umana, ma non della progettazione umana.

Seguendo il discorso dei tardo scolastici, i gesuiti spagnoli, i quali indicavano con il termine naturalis quei fenomeni sociali che si erano evoluti nel tempo, l’insegnamento hayekiano ci spiega che «in questo senso la nostra morale tradizionale, evolutasi spontaneamente, è perfettamente naturale piuttosto che artificiale, e sembrerebbe adeguato chiamare queste regole tradizionali con il nome di “legge naturale”.

Sarebbe a dire che quel che è naturale è ciò che si è evoluto spontaneamente nel corso del tempo.

Ciò che importa è il superamento della falsa dicotomia che, considerando artificiale ciò che è guidato da un progetto cosciente, mentre naturale ciò che invece presenta caratteristiche istintuali invariabili, ci conduce fatalmente verso un costruttivismo razionalista.

Ecco perché Hayek deplora l’abbandono di quelli che potevano intendersi come prodromi di un modello evoluzionista di spiegazione sociale, con il prevalere di una concezione diversa di diritto naturale che si intese come diritto razionalista, un diritto secondo ragione.

Sono queste le premesse teoriche che conducono Hayek a mettere in discussione alcuni capisaldi della storia delle istituzioni politiche, prima fra tutte l’idea che un sistema normativo sia stato deliberatamente creato da qualcuno o sia frutto di un esplicito accordo.

Tanto l’ipotesi di un diritto frutto della nota sovranità bodiniana, il potere di fare e abrogare le leggi, quanto l’ipotesi contrattualista, per Hayek, non sarebbero altro se non il frutto di un razionalismo costruttivista che impedisce una corretta comprensione dell’evoluzione delle istituzioni politiche e sociali.

Da qui alla critica al positivismo giuridico il passo è breve, esso, infatti, «ad un esame critico si dimostra interamente fondato su quella che abbiamo chiamato la fallacia costruttivista. Il positivismo giuridico è infatti uno dei principali frutti di quel razionalismo costruttivista che, avendo preso alla lettera l’espressione per cui l’uomo “ha creato” la propria cultura e le proprie istituzioni, è stato condotto ad accettare la finzione secondo cui ogni legge deriva dalla volontà di qualcuno».

Quello che Hayek ci invita a recuperare nel campo del diritto è l’insegnamento evoluzionista di Edward Coke e Matthew Hale, in netto contrasto con Thomas Hobbes o, in tempi più recenti, con Hans Kelsen.

Ecco quindi che cose come lo jus gentium, il diritto dei mercanti, le consuetudini delle fiere e la common law si configurano come cosmos, ossia come ordini spontanei in grado di utilizzare la conoscenza dispersa tra gli individui senza che una singola mente abbia un ruolo di progettazione e coordinamento.

In questo senso sembra possibile concepire una posizione hayekiana non in contrasto con l’idea di diritto naturale, inteso in chiave evolutiva.

Del resto Nicola Matteucci ha sottolineato come per Coke e i legisti inglesi non ci fosse una contrapposizione tra legge di natura e common law, perché la common law altro non era se non l’attuazione dei principi della legge di natura quali si erano evoluti storicamente, attraverso i secoli e il consenso delle generazioni.

Nella costituzione consuetudinaria è immanente la ragione, non quella astratta dei razionalisti, ma una ragione storica, per cui, nella tradizione giuridico politica inglese, verrebbe meno la contrapposizione rigida tra natura e storia.

Proprio in un’ottica di questo tipo Charles Covell ha potuto annoverare Hayek tra i difensori del diritto naturale, precisando, però, che Hayek viene considerato un difensore del diritto naturale in virtù della sua opposizione al positivismo giuridico, piuttosto che per il richiamo alla tradizione giusnaturalista, che nell’opera dell’autore manca del tutto.

A detta di Covell, esiste un’altra prospettiva attraverso la quale Hayek si riferisce ad un modello “naturale”, prospettiva che, in un certo senso, richiama il discorso di Matteucci. «Hayek – scrive Covell – ha costruito un modello essenzialmente naturalistico del diritto che rimanda alla tradizione filosofico giuridica di Coke e Blackstone».

Il punto di riferimento di Hayek è la common law inglese, un diritto scoperto dai giudici, che si presenta come un ordine spontaneo.

Al contrario deplora l’idea, affermatasi con gli Stati assoluti, che l’atto di fare e abrogare le leggi fosse l’essenza della sovranità, un atto deliberato della volontà del sovrano.

Ugualmente deprecabile è stato, per Hayek, l’affermarsi del razionalismo di matrice cartesiana. Questa tradizione, infatti, ha ignorato la distinzione tra taxis e cosmos, cioè a dire tra sistemi e associazioni la cui struttura formale è caratterizzata da un ordine costruito e quei sistemi che, invece, sono cresciuti e si sono affermati attraverso un processo di evoluzione e si configurano perciò come ordini spontanei.

Il razionalismo costruttivista ha concentrato la sua attenzione esclusivamente sulle istituzioni del primo tipo, trascurando il fatto che forme di associazione umana costruite intenzionalmente sono spesso supportate da una più ampia base di ordine spontaneo.

Hayek annovera il sistema giuridico della common law tra quei sistemi definibili come cosmos e vi rinviene quel razionalismo evolutivo che porta alla configurazione di quel processo naturale che Covell definisce «naturalismo giuridico».

In questo senso, spiega Covell, per Hayek «il diritto e le istituzioni giuridiche andrebbero considerate in relazione al processo che governa l’evoluzione delle pratiche consuetudinarie e fondate sulla tradizione».

Il rapporto tra Hayek e il diritto naturale è stato nuovamente affrontato da Erik Angner nel recente volume Hayek and Natural Law.

Il discorso dell’autore prende le mosse dalla premessa che l’idea della superiorità dell’ordine naturale su quello creato dall’uomo è presente nella dottrina giusnaturalista.

La convinzione che l’ordine spontaneo sia superiore all’ordine artificiale è, a sua volta, il tema centrale del pensiero filosofico politico di Hayek.

Dati questi presupposti Angner colloca Hayek nella tradizione del diritto naturale.

È senz’altro vero che, per Hayek, le leggi evolutesi storicamente e gli ordini spontanei sono superiori a leggi e ordini artificiali.

Ed è anche vero che, almeno una parte della dottrina del diritto naturale, condivide tali idee. Quel che l’autore trascura di rilevare, tuttavia, è la forte connotazione razionalista che caratterizza la tradizione del diritto naturale.

Uno dei caratteri peculiari del giusnaturalismo è, infatti, la derivazione di valori e diritti individuali da fatti relativi alla natura umana. In questa prospettiva si ritiene che la ragione umana sia in grado di scoprire e comprendere le leggi della natura e valori etici universalmente validi.

I punti realmente inconciliabili tra la concezione evoluzionista del diritto e l’adesione di Rothbard al concetto di diritto naturale sono rappresentati proprio dal razionalismo e dal fallibilismo.

Uno dei rimproveri più duri di Rothbard è, infatti, «il continuo e onnipervasivo attacco di Hayek contro la ragione».

In realtà, l’attacco di Hayek è volto contro l’abuso della ragione, contro quel razionalismo costruttivista che si traduce in una infinita fiducia nella capacità della ragione umana di potere plasmare a proprio piacimento istituzioni sociali e politiche. Per sgombrare subito il campo da equivoci è bene sottolineare che Hayek non è un anti-razionalista, egli non distingue tra «razionalismo e anti-razionalismo, bensì tra razionalismo costruttivista e razionalismo evoluzionista, o, nei termini di Karl Popper, tra razionalismo ingenuo e razionalismo critico».

I fondamenti della libertà per Hayek e per Rothbard sono completamente differenti. Hayek fonda le ragioni della libertà sulla nostra ignoranza.

Il punto di partenza imprescindibile per la sua teoria di una società libera è la fallibilità, la parzialità e la dispersione della conoscenza di situazioni particolari di tempo e di luogo, tra milioni e milioni di persone.

Premesso questo, la libertà diventa una diretta conseguenza della divisione e della dispersione della conoscenza, in quanto condizione necessaria affinché tutte le singole e limitate conoscenze degli individui possano essere utilizzate al meglio.

Una società libera in cui vige la cooperazione pacifica e la divisione del lavoro «può utilizzare molte più conoscenze di quante non ne potrebbe contenere la mente del più saggio dei governanti».

Il valore della libertà individuale «poggia soprattutto sul riconoscimento dell’inevitabile ignoranza di tutti noi nei confronti di un gran numero dei fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi e della nostra sicurezza.

Se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà. [...]

La libertà è essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi».

Al contrario per Rothbard l’ignoranza umana è una base troppo incerta per la libertà.

Secondo l’autentica teoria razionalista noi saremmo in grado di sapere ciò che è meglio per l’uomo e di fondare sulla natura umana valori assoluti.

Rothbard liquida le premesse hayekiane come un «attacco contro la ragione umana».

La pretesa di stabilire ciò che è assolutamente buono per l’uomo appellandosi ad una “natura umana” che, per Hayek non è altro che un’idea culturale, mostra, quindi, tutta la distanza tra Rothbard e il discorso evolutivo hayekiano.

In questo senso la critica di Rothbard ad Hayek è paradigmatica di quella divisione cui assistiamo oggi all’interno dell’orizzonte della Scuola austriaca di economia tra quei libertarian che si richiamano alla versione lockeiana dell’idea di una retta ragione che consente di comprendere la legge naturale, e gli eredi della teoria, tipica delle origini della Scuola austriaca, di una conoscenza limitata, fallibile ed evoluzionista. Questo contrasto è stato reso esplicito ed è stato teorizzato in maniera compiuta da Rothbard nel 1992 in The Present State of Austrian Economics, che ha segnato la presa d’atto delle profonde differenze tra i diversi paradigmi esistenti all’interno della Scuola austriaca.

In questo scritto Rothbard prende le distanze dall’«intero lavoro di Hayek», in quanto «dedicato alla denigrazione della ragione umana».

In questo scritto Rothbard fa risalire le differenze esistenti all’interno della Scuola austriaca alla dicotomia tra il paradigma hayekiano e quello misesiano, in particolare alla diversa attitudine dei due approcci verso la ragione umana.

Ad avviso di Rothbard l’autentico paradigma austriaco è quello misesiano mentre il paradigma hayekiano fondato sull’idea delle regole evolutesi e degli ordini spontanei sarebbe irrazionale così come la posizione «ultra-soggettivista» di Lachmann.

La prasseologia misesiana definisce la logica dell’azione umana, cioè a dire il fatto che gli individui agiscono per perseguire fini che sono sempre soggettivi e per fare questo scelgono razionalmente i mezzi per realizzare tali fini.

In questo senso l’azione umana può dirsi, ad avviso di Mises, sempre razionale.

Alla base delle differenze tra i due paradigmi, misesiano e hayekiano, vi è la diversa attitudine nei confronti della ragione umana.

In Mises vi è un chiaro richiamo alla razionalità.

L’uomo è visto come l’ animale razionale di Aristotele: «la ragione – precisa Rothbard a proposito del paradigma misesiano – è l’unico ed essenziale strumento dell’uomo per scoprire quali sono i suoi bisogni e le sue preferenze, e per scoprire ed impiegare i mezzi per realizzarli.

L’insistenza di Mises sull’azione, sull’uomo che agisce, perciò, sottolinea necessariamente l’importanza vitale della ragione umana. L’uomo misesiano agisce e, perciò, seleziona consapevolmente gli obiettivi e decide come perseguirli.

Nell’opera di Mises non vi è riferimento al tema dell’ ordine spontaneo che, invece, in Hayek, sta alla base di tutto il discorso filosofico politico.

Rothbard critica la teoria hayekiana dell’ordine spontaneo dal momento che, a suo avviso, implica una mancanza di consapevolezza da parte dell’essere umano. Rothbard critica tre punti fondamentali del pensiero hayekiano: la teoria dell’ordine spontaneo; le conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali e l’idea del risultato dell’azione umana ma non del progetto umano.

Gli ultimi due concetti, evidentemente, non sono altro che conseguenze del primo che, come si è già avuto modo di notare, è la vera pietra angolare del paradigma hayekiano. «Hayek – nota Rothbard – è sempre ansioso di enfatizzare l’importanza delle conseguenze inintenzionali rispetto a quelle intenzionali, così sottovalutando l’importanza dell’azione umana consapevole.

Gli esseri umani agiscono, ma le loro azioni consapevoli non hanno importanza dal momento che non comportano effetti desiderati, progettati o intenzionali.

L’analisi di Mises, al contrario, si basa solidamente sulla concezione aristotelica dell’azione, nella quale il pensiero e l’azione sono intenzionali dal momento che sono sempre rivolti verso un obiettivo».

È vero che le conseguenze inintenzionali esistono, come è vero che esiste il processo della mano invisibile illustrato da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni.

Ma, si chiede Rothbard, non sarebbe meglio se le conseguenze positive delle azioni di ciascuno fossero comprese da coloro che agiscono?

Non sarebbe meglio, ad esempio, «fare capire a un imprenditore tutte le conseguenze desiderabili delle sue azioni?».

Inoltre accettare tale teoria condurrebbe ad un’attitudine conservatrice e acritica nei confronti di quelle istituzioni che sono semplicemente cresciute spontaneamente, compreso lo Stato.

Nella prospettiva rothbardiana la teoria dell’ordine spontaneo e delle conseguenze inintenzionali comporta, infatti, una grave conseguenza per quel che riguarda la concezione dello Stato.

La critica all’essenza dello Stato rimane fuori questione.

Le azioni dello Stato non possono essere imputate «a lobbysti ben consapevoli» e allo stesso modo «la ricerca di sussidi e privilegi speciali è semplicemente cresciuta spontaneamente».

Di conseguenza «nessuno – prosegue Hayek – può essere considerato colpevole delle azioni dello Stato: non ci sono motivazioni, obiettivi, azioni di lobby, non vi è nessuno sfruttamento di chi paga le tasse da parte di individui egoisti. [...]

La mentalità hayekiana, applicata all’azione dello Stato, – conclude Rothbard – rimuove la colpa e anche la comprensione dall’analisi del processo storico».

La dottrina, infine, del risultato dell’azione umana, ma non del progetto umano, è stata, per Rothbard, davvero pericolosa ed ha condotto alla conservatrice Whig interpretation of history, che a sua volta consiste nel considerare giusto tutto ciò che si è sviluppato storicamente.

Rothbard rileva, giustamente, come non tutto ciò che si è evoluto spontaneamente sia coerente con un sistema di libertà e una società aperta.

Sarebbe, dunque, un errore accettare supinamente tutte le convenzioni e le consuetudini per il semplice fatto di trovarle stabilite.

Secondo l’idea di evoluzione culturale, in realtà, con il tempo si affermerebbero gli usi e le istituzioni più idonee alla sopravvivenza e allo sviluppo di un gruppo sociale.

Rothbard, in effetti, mette qui in rilievo uno dei punti più problematici dell’opera hayekiana.

Si chiede non solo se sia proprio vero che ad affermarsi siano sempre le istituzioni migliori, ma si pone pure il problema del lasso di tempo necessario affinché si possano produrre opportune modifiche in eventuali istituzioni o consuetudini inique.

In realtà Hayek non esclude l’opportunità di correzioni legislative deliberate. «Il fatto che ogni diritto derivante dal tentativo di articolare verbalmente regole di condotta possegga di necessità certe proprietà desiderabili non necessariamente possedute dai comandi di un legislatore, non significa che per altri rispetti esso non possa svilupparsi lungo direzioni molto indesiderabili e che, quando ciò accada, correzioni legislative deliberate non possano essere l’unica soluzione praticabile.

Per varie ragioni i processi evolutivi spontanei possono condurre ad una impasse da cui non possono districarsi con le proprie forze, o almeno, da cui non riescono a correggersi abbastanza velocemente. [..] In quei casi nei quali si riconosce che norme fin qui accettate sono ingiuste alla luce di principi di giustizia più generali, può essere necessaria non solo la revisione di una singola regola ma anche di intere sezioni del sistema giurisprudenziale consolidato».

La ragione, dunque, pur non avendo un ruolo progettuale e creativo nel campo di tutte le istituzioni può e deve avere un ruolo correttivo ma, per un pensatore radicale come Rothbard, questo non è sufficiente.

Pure Joseph Salerno evidenzia il contrasto tra il razionalismo di Mises e l’enfasi, a suo avviso, irrazionale di Hayek sull’ordine spontaneo.

L’idea di Salerno è che per realizzare mutamenti sociali non si possa fare affidamento su conseguenze spontanee e non intenzionali.

LA CRITICA A LUDWIG VON MISES. IL SOGGETTIVISMO DEI VALORI

Nel già citato saggio The Present State of Austrian Economics Rothbard non faceva alcun riferimento al discorso della critica alla difesa avalutativa del mercato da parte di Mises.

In realtà il contrasto con Mises su questo punto data sin dagli inizi degli anni sessanta.

Nel 1960 il Volker Fund organizzò un convegno, il Symposium on Relativism, che vide contrapposti Mises e Bruno Leoni da un lato e Leo Strauss dall’altro.

In questa occasione Rothbard scrisse un memo privato per il Volker Fund commentando l’evento.

Ebbene, proprio in questa circostanza Rothbard prese le distanze dalla posizione avalutativa misesiana.

La critica alla relazione di Mises è paradigmatica.

Sin dalla sua Nota introduttiva Rothbard specifica di essere a favore dell’assolutismo dei valori. «L’assolutista ritiene – scrive – che la mente umana, impiegando la ragione [..] sia in grado di scoprire e conoscere il vero circa la realtà ed il vero su ciò che è meglio per l’uomo e meglio per se stesso in quanto individuo.

Il relativista nega questo, nega che la ragione umana sia capace di conoscere il vero e sostiene che il vero piuttosto che essere assoluto è relativo a qualcos’altro. [..]

Da un punto di vista filosofico io credo che il libertarismo ed il più ampio credo in un solido individualismo, di cui il libertarismo è parte, debba basarsi sull’assolutismo dei valori e negare il relativismo».

Rothbard prende le distanze dalla posizione logica e avalutativa del libero mercato da parte di Mises, sostenendo l’opportunità e la necessità per la filosofia politica di ricercare principi fondanti del vivere in società che siano universalmente validi.

Mises fonda il proprio liberalismo sulla soggettività di valori e fini.

La soggettività di valori e fini è un punto nodale nella riflessione misesiana e un fondamento della società aperta.

Mises segue l’assunto di Hume dell’impossibilità di far derivare valori dai fatti.

Per Rothbard tutto questo fa di Mises un «relativista etico». «L’approccio utilitarista e relativista di Mises all’etica – a suo avviso – non è neppure lontanamente sufficiente per sostenere pienamente la libertà.

Esso deve essere completato da un’etica assolutista, un’etica della libertà, fondata sulla legge naturale, vale a dire sulla scoperta delle leggi della natura umana, così come altri valori necessari al bene e allo sviluppo dell’individuo.

Il mancato riconoscimento di questo è la più grande manchevolezza nella visione del mondo di Mises».

Il soggettivismo di fini e valori e la difesa del libero mercato da un punto di vista logico sono procedimenti corretti nell’ambito della prasseologia, ma non soddisfano l’esigenza rothbardiana di un’etica fondata razionalmente.

La prasseologia, la scienza dell’azione umana ci dice che un’economia di libero mercato è lo strumento migliore per il raggiungimento del più vasto benessere e per la realizzazione dei fini più vari, fini sempre soggettivi come i valori che li sottendono. Dal momento che l’economia si occupa di fatti non può avere implicazioni dirette per l’etica.

Per Mises i giudizi di valore esprimono mere preferenze di carattere soggettivo, che non possono essere considerate vere o false.

Rothbard è in disaccordo su tale visione dell’etica.

Il problema per Rothbard è come sia possibile convincere gli altri che il migliore dei sistemi sociali sia l’economia di mercato, basandosi sulla soggettività dei valori. Mises ritiene si debba fondare la scelta del libero mercato sulle conseguenze di tale scelta.

Senza negare che i giudizi di valore siano l’espressione di scelte di fondo soggettive, pensa che praticamente tutti avrebbero una buona ragione per sostenere il libero mercato.

Al contrario, per Rothbard, certi fatti riguardanti la natura umana darebbero origine a giudizi oggettivi circa ciò che è meglio per l’uomo.

Rothbard non considera pienamente sufficienti gli argomenti principali di Mises circa il capitalismo.

Il tentativo di Mises di fondare il capitalismo su basi soggettive, sebbene valido, avrebbe bisogno del supporto di un’altra argomentazione.

Rothbard si inserisce tra quegli autori i quali ritengono che in pratica pochi dei nostri giudizi su fatti siano “puri” nel senso richiesto dalla dicotomia fatti-valori.

Pur non potendo far derivare prescrizioni dai fatti possiamo farle derivare dai giudizi su fatti.

Si tratta della posizione di Strauss e di Philippa Foot.

Oltre a ciò, ad avviso di Rothbard, potrebbero esservi verità evidenti di per sé e perciò in grado di fornire la base di un’etica oggettiva.

La proprietà di se stessi, sul proprio corpo sarebbe una tale verità.

Mises, come è noto, respinge questa posizione e secondo il suo modo di vedere non esistono criteri per valutare in maniera oggettiva giudizi di valore: «Il fine ultimo dell’azione è sempre la soddisfazione di qualche desiderio dell’uomo agente. Poiché nessuno è in condizione di sostituire giudizi di valore suoi propri a quelli dell’individuo agente, è vano giudicare gli scopi e le volizioni altrui.

Nessuno è qualificato a dichiarare che cosa renderebbe più felice o meno scontento un altro uomo».

Dato il suo soggettivismo etico Mises respinge l’intera nozione del diritto naturale. «I principi della filosofia utilitarista e dell’economia classica non hanno nulla a che fare con la dottrina dei diritti naturali. [...] Raccomandano il governo popolare, la proprietà privata, la tolleranza e la libertà, non perché naturali e giuste, ma perché sono vantaggiose».

Come mai Rothbard ricorre ad un argomento di carattere etico per sostenere il libero mercato?

Egli doveva pur essere conscio che l’argomento del diritto naturale era quanto mai controverso.

Il modo di procedere di Mises è senz’altro corretto in relazione alla prasseologia, precisa Rothbard, non è però in grado di dirci che cosa sia meglio per l’essere umano. In breve il discorso di Mises lascia insoddisfatta l’esigenza rothbardiana di dare un fondamento oggettivo e razionale alla libertà.

Mises dimostra che politiche restrittive dell’economia di mercato porteranno conseguenze indesiderate per la maggior parte delle persone.

Una volta dimostrato questo tutti dovrebbero logicamente accettare l’economia di mercato.

Tuttavia, precisa Rothbard, il discorso non è così semplice. Alcuni individui, infatti, potrebbero desiderare proprio il verificarsi di conseguenze quali la penuria di beni, la fame o la miseria.

Oppure potrebbero avere un interesse di breve periodo per preferire politiche pesantemente interventiste.

O, ancora, potrebbero essere egalitari al punto da preferire un’uguale miseria per tutti, altri ancora potrebbero essere nichilisti e desiderare una scarsità di beni o lamentare l’eccessivo benessere della nostra società e lo spreco di risorse.

Altri ancora potrebbero avere un interesse di breve periodo legato a politiche interventiste e desiderare posizioni di potere all’interno della burocrazia.

Esistono vari tipi di possibilità che vanno a contrastare la convinzione di Mises che tutti i sostenitori dell’interventismo statale diverrebbero sostenitori del libero mercato una volta comprese le logiche conseguenze di un calo della libertà di mercato.

L’intento di Rothbard è quello di dare una maggiore forza persuasiva alle proprie argomentazioni a sostengo della libertà.

Colui che pur avendo compreso tutti i vantaggi derivanti da un’economia di libero mercato, benessere, pace e cooperazione, vi rimanesse comunque contrario, si troverebbe a dover fronteggiare anche un argomento di carattere etico.

E, secondo Rothbard, si tratterebbe di un argomento oggettivo e razionale.

Rothbard trova nel diritto naturale una guida in grado di farci comprendere quali fini siano migliori per l’uomo, cioè a dire quali fini siano conformi alla natura umana. «Il diritto naturale – scrive – spiega quel che è meglio per l’uomo, quali fini, in armonia con la sua stessa natura e ad essa confacenti egli dovrebbe perseguire. L’impostazione aristotelico tomista dell’idea di una legge naturale ha un ruolo molto importante nella teoria di Rothbard, il quale ne riprende l’idea di un ordine di leggi naturali suscettibili di essere scoperte dalla ragione. «Nella tradizione tomista il diritto naturale è legge tanto etica quanto fisica, e lo strumento tramite il quale l’uomo apprende tale legge è la propria ragione [..].

L’Aquinate quindi capiva che gli uomini agiscono sempre per uno scopo, ma andava oltre sostenendo che la ragione può anche valutare se gli scopi siano obiettivamente buoni o cattivi per l’uomo».

Rothbard, diversamente da Mises, pensava che da certi fatti riguardanti la natura umana potessero dedursi principi etici. «Gli esseri umani – afferma – non nascono già dotati di piena conoscenza, valori, obiettivi o personalità; ciascuno di noi forma i propri valori e obiettivi, sviluppa la propria personalità e conosce se stesso e il mondo che lo circonda.

Ogni uomo deve avere libertà, deve agire e comportarsi secondo le proprie scelte per lo sviluppo della sua personalità.

Egli, in breve, deve essere libero per poter essere pienamente uomo>>

CONCLUSIONE

Le precedenti considerazioni intendono sottolineare la vitalità dell’austro-libertarismo americano e la pluralità delle posizioni teoriche al suo interno.

In particolare l’innestarsi della teoria evolutiva delle istituzioni sociali, tipica della Scuola austriaca, su una tradizione fortemente improntata ai principi di diritto naturale ha condotto, in special modo con Murray Rothbard, ad una divisione interna agli sviluppi americani della Scuola austriaca che sembra tuttora insanabile.

Se, da un lato, i libertari condividono una serie di principi, libero mercato, individualismo metodologico e la diffidenza nei confronti dello Stato, d’altro canto il contrasto forse più profondo è quello tra coloro che, seguendo Rohtbard, credono nella possibilità di una fondazione razionale dell’etica e i non-fondazionisti.

Detto questo occorre enfatizzare la ricerca incessante da parte del libertarismo di un ordine sociale all’interno del quale la libertà dell’individuo sia il valore primario e lo sforzo teorico di comprendere la complessa relazione tra istituzioni politiche e azioni individuali.

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