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84 - L'INSOSTENIBILE FONDAZIONISMO DI ROTHBARD

Di Enzo Di Nuoscio (dalla rivista Civiltà delle Macchine, 2011)


INTRODUZIONE

A partire dal celebre confronto, nell’Ottocento, tra N.E. Senior e J.S. Mill e come testimonia la grande influenza che nel secolo scorso hanno avuto gli opposti paradigmi metodologici di L. Robbins e T.C. Hutchinson, la contrapposizione tra aprioristi e empiristi ha segnato l’intera storia del pensiero economico e ha offerto differenti strategie soprattutto per la definizione dello statuto epistemologico delle leggi dell’economia (B. Caldwell, (1982, capp. 6-7).

Se L. von Mises è stato l’esponente più influente della tradizione apriorista, M. Rothbard ne è stato certamente l’interprete più radicale.

In alcuni casi sviluppando posizioni soprattutto dell’ultimo Mises, in altri casi prendendo strade diverse e persino opposte a quelle del maestro, Rothbard porta alle estreme conseguenze la contrapposizione tra apriorismo ed empirismo, con un preciso obiettivo: assegnare alle leggi economiche lo statuto di teorie a priori, vere ed incontrovertibili.

Questo “assolutismo epistemologico”, come egli stesso non esita a definirlo, trova il suo complemento in un “assolutismo etico”, allorché Rothbard, appellandosi al diritto naturale, cerca di dimostrare che alcuni valori sono oggettivamente superiori agli altri.

La prasseologia come “scienza assoluta” dei mezzi e il giusnaturalismo come “scienza assoluta” dei fini si saldano nel tentativo rothbardiano di dimostrare che la propria prospettiva libertaria non è una tra le possibili opzioni, ma l’unica oggettivamente superiore alle altre, le quali, non essendo in linea con i diritti naturali, devono essere considerate irrazionali.

In questo saggio vengono formulate delle critiche epistemologiche ad alcuni aspetti chiave di queste tesi di Rothbard, in particolare: al tentativo di conferire una fondazione empirica al suo “apriorismo estremo”; alla difesa del dualismo metodologico tra scienze sociali e scienze naturali; alla contrapposizione tra conoscenza a priori e conoscenza empirica; alla presunta infalsificabilità delle leggi economiche; alla possibilità di un’ “etica assoluta” in base a cui stabilire l’irrazionalità di determinati valori.

1. LA VIA EMPIRICA ALL’“APRIORISMO ESTREMO” DI ROTHBARD

Per l’individualista Mises, come è noto, “ci sono due branche principali delle scienze dell’azione umana: la prasseologia e la storia” (L. von Mises, 1949, p. 29).

Partendo dall’“assioma fondamentale” secondo il quale “in principio vi è l’azione”, poiché l’essere umano è per definizione homo agens (la condizione di non- azione è una condizione non-umana) ed è l’unica entità ad avere esistenza reale, la prasseologia deriva logicamente dalla nozione di azione una serie di enunciati universali, “necessariamente veri”.

Attraverso un “ragionamento aprioristico, puramente concettuale e deduttivo” (ivi, p. 36), la prasseologia offre alla “storia” strumenti teorici indispensabili per la spiegazione del contenuto empirico di ogni singola azione.

Se è vero che gli enunciati della prasseologia “non sono derivati dall’esperienza” e, al pari di quelli della matematica e della geometria, non sono “null’altro che tautologie e giudizi analitici”, in quanto “tutte le loro implicazioni [...] erano già contenute nelle premesse”, tuttavia il loro impiego - così come quello dei teoremi della geometria - fa avanzare la conoscenza empirica, poiché, spiega Mises, “senza di essi non saremmo capaci di vedere nel corso degli eventi null’altro che cambiamento caleidoscopico e confusione di eventi” (ibidem).

Proprio nella definizione dello statuto epistemologico dell’“assioma fondamentale” e degli enunciati che da esso deriva la prasseologia, si consuma una prima rilevante frattura tra Mises e Rothbard.

Mises propende per una “soluzione kantiana”, interpretando i teoremi prasseologici come “giudizi sintetici a priori”, mentre Rothbard assume una posizione che egli stesso non esita a definire “aristotelica” e “neo-tomista”.

Se Mises, sulla base di un principio metafisico (“esistono solo individui”, i quali per definizione agiscono), sceglie l’azione umana come oggetto della prasseologia, la quale consente di dedurre dalla nozione di azione alcuni “requisiti” (dell’azione stessa) e determinate leggi, per Rothbard, invece, “sia l’assioma fondamentale che gli assiomi sussidiari sono derivati dall’esperienza della realtà e sono quindi, in senso più lato, empirici” (M. Rothbard, 1976a, p. 63).

Essi “1) sono basati sulla comune esperienza umana e, una volta enunciati, diventano autoevidenti e, pertanto, non soddisfano il criterio alla moda della falsificabilità; 2) sono legati, soprattutto l’assioma dell’azione, all’esperienza universale interna, così come all’esperienza esterna, la loro evidenza, in altri termini, è riflessiva, anziché puramente fisica; 3) sono a priori rispetto agli eventi storici complessi” (ivi, p. 65). Dunque, per Rothbard gli a priori dell’azione non possono essere considerati, come fa Mises, “leggi del pensiero”, derivate da una analisi meramente concettuale della nozione di azione, ma sono “leggi della realtà, che la mente umana apprende investigando e collezionando i fatti del mondo reale” (ivi, p. 63).

In aperta polemica soprattutto con lo strumentalista M. Friedman (1953, p. 523), secondo il quale una teoria non può essere accettata se non in base all’esito delle previsioni e quindi del controllo empirico e “non può essere controllata sulla base del ‘realismo’ delle sue assunzioni”, Rothbard così sintetizza il suo “apriorismo estremo”: sono “assolutamente veri” a) “gli assiomi fondamentali e le premesse dell’economia”; b) “i teoremi e le conclusioni da essi dedotti mediante le leggi della logica”; c) “non c’è, di conseguenza, alcun bisogno di ‘controllo’ empirico sia delle premesse che delle conclusioni”; d) “anche volendolo, i teoremi dedotti non possono essere controllati” (M. Rothbard, 1957, p. 100).

Coerentemente con il suo tentativo, da un lato, di dare una fondazione empirica alle proposizioni della prasseologia, e dall’altro, di dimostrare la certezza della loro verità, in Defense of “Estreme Apriorism” Rothbard si spinge ad affermare che l’“assioma dell’azione” è “una legge della realtà non concepibile come falsificabile, comunque dotata di senso e vera” (ivi, p. 105).

Si tratta di “una legge della realtà piuttosto che una legge del pensiero”, e dunque “empirica”, “autoevidente”, “definitivamente vera”, piuttosto che “a priori”.

Tuttavia, precisa Rothbard, “dovrebbe essere ovvio che questo tipo di ‘empirismo’ è così lontano dal moderno empirismo che si può continuare a definirlo a priori” (ibidem e M. Rothbard, 1951, p. 944).

Con il suo tentativo di andare “oltre Mises” seguendo una soluzione “aristotelica” e “neo-tomista”, Rothbard, da un punto di vista metodologico, rinnova il tentativo di quella influente tradizione di apriorismo empirico (Senior, de Say, Cair- nes, Robbins e lo stesso Stuart Mill) che già con Cairnes aveva tentato di individuare leggi economiche inconfutabili come logica deduzione da “indubitabili fatti della natura umana e del mon-do” (J.E. Cairnes, 1888, p. 64).

2. LE CONTRADDIZIONI DELL’“APRIORISMO ESTREMO”

Rothbard condivide con Mises quello che è il tratto peculiare della prasseologia: la possibilità di individuare caratteristiche dell’azione e leggi economiche che siano, al tempo stesso, vere, incontrovertibili e universali.

E tuttavia la svolta empirica impressa da Rothbard alla prasseologia risulta epistemologicamente contraddittoria proprio con la pretesa di incontrovertibilità attribuita ai teoremi della prasseologia.

Più in particolare, le critiche su questo aspetto del pensiero di Rothbard possono essere così articolate:

a) se si ritiene, come egli fa, che il carattere agens dell’essere umano e gli attributi che regolano la sua azione (intenzionalità, razionalità, incertezza dei risultati, relazione mezzi-fini, struttura temporale delle preferenze, legge dell’utilità marginale, ecc.) sono verità empiriche che possono essere scoperte “investigando e collezionando i fatti del mondo reale”, questa tesi risulta in contrasto con quel “primato del teorico” che è uno dei punti fermi dell’epistemologia misesiana. Quest’ultima, infatti, si configura innanzitutto come una critica serrata a quell’empirismo, al tempo stesso ortodosso e ingenuo, legato ad una prospettiva “osservativistica”, la quale, come è noto, è stato uno dei principali bersagli critici degli stessi “austriaci”, nonché dell’epistemologia popperiana e post-popperiana.

b) Rothbard sostiene che, attraverso un procedimento “riflessivo”, di natura sostanzialmente comprendente, è possibile dimostrare che i principi della prasseologia sono “universalmente veri”, in quanto basati sulla “comune esperienza umana”.

Non è difficile rendersi conto come il tentativo di cercare proposizioni dotate di contenuto empirico e universalmente vere mediante una indagine comprendente possa essere accusato di scadere inevitabilmente sia nello psicologismo, universalizzando indebitamente gli esiti di un procedimento che ha natura necessariamente soggettiva, sia nell’induttivismo, volendo passare dal particolare dell’esperienza individuale all’universale di proposizioni necessariamente vere.

Due impostazioni metodologiche, queste, che, anche alla luce delle devastanti critiche epistemologiche ad esse rivolte soprattutto da Popper, si rivelano incompatibili con la ricerca di proposizioni e leggi empiriche vere e incontrovertibili.

c) In ulteriore e non lieve contraddizione sembra, inoltre, cadere Rothbard proprio quando affronta il tema della controllabilità delle “premesse” e delle “conclusioni” dell’indagine prasseologica.

Si tratta, a suo avviso, di proposizioni che possono essere dimostrate universalmente vere mediante l’esperienza empirica individuale (sono a posteriori rispetto all’indagine empirica diventano a priori per la spiegazione dei “fenomeni complessi”); proposizioni che, anche volendolo, non possono essere controllate.

Ora, risulta di tutta evidenza che vi è una contraddizione tra l’assegnare lo statuto di verità empiriche alle asserzioni della prasseologia e ritenerle al tempo stesso incontrollabili, considerandole al di là del campo di applicazione di quello che ironicamente Rothbard definisce come il “criterio alla moda della falsificabilità”.

Se le proposizioni che descrivono il “postulato fondamentale” e gli enunciati da esso dedotti sono di carattere empirico, costruite “collezionando i fatti del mondo”, è nella loro natura poter essere controllate e sottoposte al criterio di falsificabilità.

Come scriveva Wittgenstein, “una teoria per poter essere vera deve poter essere anche falsa”.

Si può dunque concludere che il tentativo di Rothbard di rendere “estremo” l’apriorismo misesiano conferendogli una fondazione empirica, si rivela irto di contraddizioni ed esposto a severe critiche epistemologiche.

Concepire il “postulato fondamentale”, oltre che le leggi da esso dedotte, come acquisizioni frutto dell’esperienza non può che conferire ad esse un carattere ipotetico, facendo venir meno la cifra peculiare dell’apriorismo di Mises, il quale oppone principi a priori sempre veri a quell’empirismo ortodosso che assolutizza l’esperienza e nega nella scienza diritto di cittadinanza a qualsiasi ipotesi a priori non empiricamente controllabile.

È dunque l’eccesso di fondazionismo che porta Rothbard, in contrasto con le sue intenzioni, a indebolire la prasseologia, e a nulla vale il suo tentativo di conferire quasi una sorta di immunità epistemologica al suo empirismo, qualificandolo come “a priori”.

3. DALL’ “APRIORISMO ESTREMO” AL DUALISMO METODOLOGICO

Strettamente connessa con la sua strategia di fondare la ricerca sociale sulla prasseologia, seguendo il Mises di Theory and History e soprattutto di The Ultimate Foundation of Ecomonic Science, Rothbard ripropone l’idea di un dualismo metodologico tra scienze storico-sociali e scienze fisico-naturalistiche.

Una tesi, questa, che rappresenta un motivo costante dell’intera riflessione rothbardiana e che, insieme al tentativo di giustificazione empirica della prasseologia, costituisce il principale aspetto del suo contributo metodologico.

Rothbard parte da una constatazione che lo accomuna al Mises di Theory and History: vi è una differenza fondamentale tra i fatti fisici e quelli sociali, poiché questi ultimi sono prodotti dall’azione umana, la quale, essendo legata alle conoscenze e agli imprevedibili fini di ogni singolo individuo, rappresenta un fattore di indeterminazione incompatibile con la spiegazione nomologica.

“Azione umana, spiega Rothbard, significa uso di mezzi in vista di fini selezionali.

Tale azione contrasta con il comportamento osservato di pietre e pianeti, poiché essa implica un’intenzione da parte dell’attore.

L’azione implica scelte tra alternative” (M. Rothbard, 1956, p. 212). A differenza degli oggetti della fisica, “che non agiscono, non scelgono e non cambiano le loro decisioni”, i fatti della storia umana, sono il risultato complesso e mutevole dell’interazione di azioni di individui, i quali adottano in modo imprevedibile le loro decisioni (M. Rothbard, [1973] 2001, p. 49).

Poiché i singoli, come avrebbe detto Mises, “allo stesso stimolo reagiscono in differenti modi e uno stesso uomo può reagire ad esso in modi diversi in tempi diversi” (L. von Mises [1957] 2009, p. 50), ciò significa che per la spiegazione dei fenomeni sociali non si può contare su “fattori costanti” e “regolarità”.

Questa constatazione induce Rothbard a concludere che nelle scienze sociali, essendo numerosissime e imprevedibili le variabili rappresentate dalle azioni umane, non è applicabile sul piano sperimentale la clausola del coeteris paribus, e quindi diventa inservibile il modello nomologico-deduttivo (M. Rothbard [1960] 2001, pp. 17 e ss).

Tutt’al più, “gli storici possono convenire nella enumerazione di tutti i fattori causali rilevanti per la spiegazione di un problema, ma essi necessariamente non concorderanno circa il peso da assegnare a ciascuno di essi.

La valutazione della importanza relativa dei singoli fattori storici è un’arte non una scienza, una questione di giudizi ed esperienza personali” (ivi, p. 18).

A due oggetti di studio differenti corrispondono due diversi metodi di indagine.

Nelle scienze naturali si procede attraverso il “metodo empirico”, che consiste nel partire “da ciò che è conosciuto con certezza – le regolarità empiriche – da cui derivare ipotesi sempre più ampie”, le quali, a seconda dell’esito della “prova empirica”, vanno “scartate” oppure “sostituite con nuove spiegazioni che siano in grado di dare conto di una più ampia varietà di fenomeni” (M. Rothbard, [1973] 2001, p. 49).

L’economia, invece, applica il metodo “assiomatico-deduttivo”: parte da assiomi “apoditticamente certi”, individuati mediante una “comprensione interpretativa” (Rothbard si riferisce esplicitamente a Schultz, e Mises aveva fatto riferimento a Dilthey per chiarire il compito della timologia) (L. von Mises [1957] 2009, p. 343) e, servendosi di esperimenti mentali (i quali per le scienze sociali rappresentano quello che per le scienze naturali sono i controlli sperimentali), arriva a formulare leggi “necessariamente qualitative” e “sempre vere”, come ad esempio quella della domanda e dell’offerta (H.-H. Hoppe 1995, p. 38).

Dunque, l’impossibilità di ricorrere al metodo “empirico-positivista”, che deriva dall’impossibilità di tenere sperimentalmente costanti tutte le altre innumerevoli variabili, non solo non è uno scacco per l’economista, ma lo pone “in una posizione migliore di quella del fisico” (M. Rothbard, 1951, p. 944).

“Mentre il fisico è certo delle sue leggi empiriche, ma incerto e costretto a procedere per tentativi nelle sue generalizzazioni esplicative, l’economista si trova nella situazione opposta.

Egli inizia non con regolarità empiriche, dettagliate, quantitative, ma con ampie generalizzazioni esplicative.

Egli conosce con certezza queste premesse fondamentali, che hanno lo status di assiomi apodittici, sulle quali può con fiducia costruire ipotesi per via deduttiva” (ibidem).

4. LA PRASSEOLOGIA NON PORTA AL DUALISMO METODOLOGICO

Così come le sue posizioni in merito allo statuto epistemologico dei postulati della prasseologia, anche questa avversione di Rothbard al metodo unificato si espone a diffuse critiche.

a) La “storica” obiezione, riproposta da Rothbard, secondo la quale i fatti storico-sociali, essendo “unici”, non sono spiegabili causalmente, può essere rifiutata sostenendo che ciò che è “unico”, nei fatti di cui si occupa la fisica, come in quelli di cui si occupano le scienze sociali, è l’“intreccio di aspetti tipici”.

Come hanno ben evidenziato Hempel e Oppenheim (1948, pp. 135 e ss) nel loro celebre saggio sul covering law model, uno dei requisiti logici che una spiegazione nomologica deve rispettare affinché sia scientifica è la prospetticità, cioè prendere in considerazione (sulla base degli interessi del ricercatore) una o più prospettive tipiche.

b) Dalla constatazione che i fatti sono “unici”, Rothbard - nemico dichiarato di ogni forma di empirismo acritico e induttivista - trae la conclusione che nelle scienze sociali non vi sono “costanti” e “non vi è quindi spazio per leggi” (M. Rothbard [1973], 2001, p. 62).

In questo modo, però, egli sembra confondere le leggi scientifiche con generalizzazioni empiriche (regolarità accidentali o tendenze) costruite induttivamente.

Tali generalizzazioni, essendo “proposizioni esistenziali”, meri resoconti di esperienza che non dicono niente di più di quello che descrivono, non sono in grado di assicurare una copertura nomologica.

Ben altra cosa sono le leggi, che per essere scientifiche devono essere proposizioni universali o, come capita più spesso soprattutto nelle scienze sociali, law-like sta- tements di ampiezza variabile, empiricamente controllabili, le quali contribuiscono a formare quel weberiano “sapere nomologico” che permette di individuare relazioni causali tipiche che collegano i fatti storici e sociali (E. Di Nuoscio, 2004, cap. 5).

Dalla condivisibile tesi che le regolarità empiriche non possono essere utilizzate come leggi di copertura non può quindi essere dedotta la conclusione, come invece fa de plano Rothbard, che va respinta la spiegazione causale.

Se così fosse, oltretutto, per le stesse ragioni il modello nomologico-deduttivo – al contrario di quanto ammette Rothbard – non si applicherebbe neanche nell’ambito delle scienze naturali.

È dunque bene chiarire che le varie forme di “regolarità esistenziali”, a cominciare dalle tendenze più ampie e consolidate, non sono delle leggi, bensì dei “fatti” che vanno spiegati mediante leggi.

c) Rothbard equipara determinismo storicistico, che azzera l’intenzionalità individuale, e metodo unificato.

Abbandonare il metodo dell’“introspezione” (M. Rothbard, 1971, p. 198), su cui si basa la prasseologia, per adottare quello delle scienze naturali, significa a suo avviso cadere in un “determinismo” e in uno “scientismo” che privano l’individuo della sua libertà e che riducono la sua azione a effetto di cause diverse dalle intenzioni.

In sostanza, il metodo causale è, in quanto tale, connaturato ad una concezione collettivistica della società: “è la negazione dell’esistenza della consapevolezza e della volontà individuali” che diventa inevitabile quando, attraverso l’analogia con le scienze naturali, si considerano i “singoli organismi” come “fittizie entità collettive, quali ad esempio la società” (M. Rothbard [1960], 2001, p. 25).

Questa tesi di Rothbard si basa sull’inaccettabile presupposto che la spiegazione causale dell’azione e dei fenomeni macrosociali sia incompatibile con l’individualismo metodologico.

Basti qui ricordare che egli semplicemente dimentica che esiste una grande tradizione di pensiero (Mill, Weber, Hempel, Popper, Boudon) che ha, per così dire, combinato individualismo metodologico e spiegazione nomologica, dimostrando come la più efficace spiegazione individualistica sia quella che rifiuta lo “psicologismo” e che considera le ragioni individuali come la causa dell’azione.

Come pure trascura il fatto che questi autori, da individualisti e da difensori del principio di causalità, da un lato hanno spiegato fenomeni macrosociali, dall’altro, lungi dall’identificare indebitamente (come fa Rothbard) spiegazione causale e determinismo anti-individualistico, hanno formulato devastanti critiche epistemologiche a ogni forma di determinismo storicistico e sociologico (contro il quale Rothbard stesso si batte) che reifica i concetti collettivi e pretende di scoprire leggi ineluttabili di sviluppo storico.

d) Il nucleo centrale del dualismo metodologico rothbardiano, come si è visto, riguarda la controllabilità empirica delle teorie.

Riproponendo una nota tesi elaborata dallo stesso Mises già in Human Action, Rothbard sostiene che, a differenza di quella naturale, la scienza sociale teorica non è in grado di formulare ipotesi di spiegazione causale empiricamente controllabili, poiché, a causa dell’elevato numero e della estrema variabilità delle condizioni iniziali, non è applicabile a livello di esperimento empirico la clausola coeteris paribus. L’economista può servirsi di questa clausola soltanto attraverso un esperimento mentale che, partendo dall’“assioma fondamentale” (e supponendo invariabili una serie enorme di condizioni) deriva da esso leggi logicamente necessarie e sempre vere.

A queste argomentazioni di Rothbard si possono rivolgere due critiche fondamentali: i) non tengono conto che qualsiasi spiegazione, a cominciare da quelle della fisica, presuppone ex definizione la clausola del coeteris paribus, in quanto le condizioni iniziali sono sempre dei sistemi con differenti gradi di “apertura” e spesso individuano “costellazioni di cause”, come le definisce Weber, che difficilmente possono essere tutte sottoposte a controllo empirico in una stessa teoria.

Il fatto poi che queste caratteristiche ricorrano maggiormente nelle scienze sociali, va tutt’al più interpretato - come osserva lo stesso Friedman (1953, p. 513) - come una differenza di grado e non di genere (sia pure non generalizzata) rispetto alle scienze naturali; una differenza che comunque non giustifica il rifiuto del metodo unificato;

ii) sostenendo che le teorie economiche non sono controllabili per l’impossibilità di fare esperimenti empirici, Rothbard fa coincidere la controllabilità empirica con quella sperimentale, non rendendosi conto che, come avviene in vaste zone anche delle scienze naturali, la seconda è solo un caso particolare della prima.

e) Per Rothbard, come si è visto, l’economia si distinguerebbe dalle scienze naturali perché le leggi della prasseologia sono “formali”, nel senso che non si riferiscono ad una specifica fattispecie empirica, e si applicano solo coeteris paribus.

Ma ciò è esattamente quello che capita in una qualsiasi spiegazione scientifica, a cominciare da quelle fisiche: le leggi sono sempre prospettiche, cioè si riferiscono a categorie di eventi tipici in quanto spiegano eventi sempre da una o più prospettive tipiche, e condizionali, poiché presuppongono la clausola del coeteris paribus, senza la quale non si riuscirebbe a rintracciare un ordine causale in quella caleidoscopica costellazione di cause di cui è effetto ogni evento da spiegare.

5. DAL DUALISMO METODOLOGICO ALL’INFALSIFICABILITÀ DELLE LEGGI ECONOMICHE

Come si è visto, partendo dall’“assioma fondamentale” – il quale, a differenza di quanto accade in fisica, non è “mera convenzione”, né ha una valenza essenzialmente “operazionale”, ma è una “verità necessaria” (M. Rothbard [1960] 2001, p. 35) – attraverso una step-by-step deduction, Rothbard deriva un corpo di leggi rigorosamente “qualitative”, “necessariamente vere”, nonché “incontrovertibili” (M. Rothbard 1961a, p. 25).

“Poiché la prasseologia inizia con l’assioma vero A, tutte le proposizioni che possono essere dedotte da tale assioma devono essere anch’esse vere.

Se A implica B, ed A è vero, allora anche B deve essere vero” (Rothbard [1973] 2001, p. 52).

Di conseguenza, non solo le caratteristiche dell’azione, ma le leggi fondamentali del- l’economia, a cominciare da quelle della domanda e dell’offerta e dell’utilità marginale decrescente, sono “apoditticamente vere” (M. Rothbard 1992, p. 131).

Mediante tali leggi, l’economista formula previsioni tipiche che non differiscono in nulla da quelle dello scienziato naturale e il loro eventuale fallimento va imputato non alle leggi, la cui validità rimane comunque intatta, ma al fatto che non si sono verificate quelle condizioni coeteris paribus presupposte da quelle leggi (Rothbard 1951, p. 944): “il prasseologo può dire, con assoluta certezza, che se aumenta la domanda di burro, e l’offerta resta invariata, il prezzo aumenterà”; ma egli, non essendo un profeta, non può prevedere se la domanda aumenterà o diminuirà (Rothbard [1973] 2001, p. 51).

Con Mises si potrebbe dire che la “teoria” non può essere controllata mediante la “storia”, e che la “prova logica” della deduzione delle leggi dalla nozione di azione sostituisce la “prova empirica”, la quale serve solo a capire l’adeguatezza o meno della ricognizione delle condizioni iniziali della spiegazione.

“L’economia prasseologica” diventa così “la struttura dell’implicazione logica derivata dal fatto che gli individui agiscono” (Rothbard 1976b, pp. 55-6).

In sostanza, spiega H.-H. Hoppe (1988, p. 202), uno dei più convinti sostenitori del radicale apriorismo empirico di Rothbard, il ragionamento economico consiste: “(1) nella comprensione delle categorie dell’azione e del significato di valore, preferenze, conoscenza, mezzi, costi, profitto o perdite, e così via; (2) nella descrizione della situazione in cui queste categorie assumono specifico significato e i singoli individui sono descritti come attori con caratteristiche definite considerate come loro obiettivi, mezzi, profitti, costi; e (3) nella deduzione logica delle conseguenze che risultano da tale specifica azione in siffatta situazione, o delle conseguenze che risultano per un attore se tale situazione è mutata in un determinato modo.

Se non ci sono errori nel processo di deduzione, le conclusioni a cui giunge tale ragionamento sono valide a priori, in quanto la loro validità dipende, in ultima analisi, dall’indiscutibile assioma dell’azione”.

6. L’INSOSTENIBILE CONTRAPPOSIZIONE TRA IPOTESI A PRIORI E PRINCIPIO DI FALSIFICABILITÀ

La definizione dello statuto epistemologico degli a priori, a cui purtroppo Rothbard non dedica riflessioni sistematiche, è uno dei punti più deboli della sua costruzione teorica, la quale, spesso forzando Mises, ripropone una radicale contrapposizione tra empirismo e apriorismo.

Più in particolare, si possono rilevare i seguenti punti critici nelle posizioni espresse dall’economista statunitense:

a) non si può accettare la tesi, la quale orienta le posizioni rothbardiane, secondo cui le proposizioni o sono tautologico-analitiche o empirico-sintetiche, e che quindi tutte quelle teorie che orientano e condizionano le ipotesi empiricamente controllabili e che non sono a loro volta controllabili debbano essere considerate mere tautologie.

Come è noto, le teorie scientifiche nascono sulla base di presupposti metafisici (il “realismo metafisico”, l’“assioma dell’ordinamento”, ecc.) e sono orientate da quelli che Popper chiama “programmi di ricerca metafisici” (per esempio la concezione deterministica dell’universo o antropologie filosofiche), i quali, pur non essendo ipotesi empiricamente controllabili, non possono essere considerate tautologie.

Se cade questa concezione grossolanamente neopositivistica della “scienza empirica”, viene meno la sua radicale contrapposizione tra apriorismo ed empirismo.

b) Rothbard identifica indebitamente le teorie empiriche con quelle prodotte per via induttiva, e, facendo coincidere la prospettiva tout court empirica con un insostenibile empirismo osservativistico, a cui assimila addirittura lo stesso falsificazionismo popperiano, arriva alla conclusione che il “problema di Hume” (il passaggio dal particolare all’universale) può essere risolto solo ricorrendo a ipotesi a priori, che egli intende come tautologiche.

È evidente che le conclusioni di Rothbard possono essere evitate proprio sfuggendo a questa indebita assimilazione: il falsificazionismo popperiano, che Rothbard ha rifiutato senza mai farci per bene i conti, si basa proprio sul principio che il controllo empirico non coincide con quello sperimentale e che le ipotesi dotate di contenuto empirico non possono essere prodotte induttivamente.

Dall’impossibilità di costruire inferenze induttive non può essere pertanto derivata l’impossibilità di avere leggi scientifiche dotate di contenuto empirico.

c) Identificando le teorie a priori con le tautologie e le ipotesi empiriche con quelle prodotte induttivamente, Rothbard non considera che in una qualsiasi spiegazione empirica le ipotesi sono formulate a priori rispetto al singolo explanandum (Mill parla di a priori in questo senso), e a posteriori rispetto alle conoscenze fino ad allora accumulate, ma non per questo, evidentemente, diventano apoditticamente vere.

d) Come si è visto, per Rothbard, il “postulato fondamentale” è una incontrovertibile verità empirica, da cui si deducono logicamente delle tautologie (i requisiti dell’azione e le leggi dell’economia), che egli considera ipotesi sempre vere e infalsificabili.

In questo mare magnum di teorie indistintamente definite a priori da Rothbard è invece opportuno distinguere tre componenti, che non possono essere epistemologicamente assimilate: l’assioma fondamentale”, i “requisiti dell’azione” e le leggi.

i) L’”assioma fondamentale” (“esistono solo individui”, i quali non possono non agire) più che una verità empirica (che, se fosse tale, non potrebbe mai essere incontrovertibile, come pretende Rothbard), può essere più utilmente considerato come un “presupposto metafisico”, che orienta l’analisi prasseologica dell’azione umana.

L’“individualismo metodologico” presuppone l’“individualismo ontologico”.

ii) I “requisiti” o “categorie” dell’azione (intenzionalità, razionalità, economicità, causalità, teleologicità, incertezza, orientamento al futuro, temporalità) possono essere considerati dei sintetici a priori, deducibili mediante un’analisi puramente concettuale dalla nozione stessa di azione.

Negando tali principi si cade in contraddizione, perché non è possibile concepire un’azione che non sia intenzionale, orientata ad uno scopo, e così via.

Si tratta di caratteristiche necessarie dell’azione umana in quanto tale, le quali forniscono preziose informazioni per formulare ipotesi di spiegazione empirica delle singole azioni, proprio come i teoremi della geometria consentono di conoscere meglio il mondo empirico.

iii) Un differente statuto epistemologico può essere riservato alle leggi, a cominciare da quella della domanda e dell’offerta e da quella dell’utilità marginale decrescente. Esse sono proposizioni empiriche che mettono in connessione causale, ad esempio, l’andamento dei prezzi con quello della domanda e dell’offerta, ed è quindi evidente che presentano conseguenze le quali descrivono osservazioni possibili, e che quindi possono essere smentite dall’esperienza8.

A differenza di quanto pretende Rothbard, l’“apodittica certezza” può essere riservata solo ai requisiti dell’azione e non anche alle leggi economiche.

Né il fatto che le leggi possono essere dedotte, introducendo la clausola del coeteris paribus, dai requisiti dell’azione, ne fa delle tautologie.

Come ha a questo proposito obiettato H. Albert ([1988] 2002, p. 35) a Mises, un simile ragionamento “confonde il carattere analitico delle proposizioni con il carattere logico delle relazioni tra le proposizioni in una deduzione.

Ma il fatto che determinate proposizioni siano deducibili da determinati gruppi di proposizioni non le rende analitiche”. “Se una proposizione, ha spiegato A. Rosenberg (1976, p. 115), è deducibile da una seconda, la prima non è necessariamente analitica anche se la seconda è assunta come vera.

Certamente, il condizionale formato dalle assunzioni di microeconomia è analitico, ma da ciò non ne segue che le stesse implicazioni sono analitiche”.

e) Pur non essendo possibile in questa sede affrontare l’annosa questione della falsificabilità delle leggi economiche e il grande dibattito che essa ha generato tra aprioristi e empiristi, è tuttavia possibile rivolgere a questo proposito una osservazione critica a Rothbard.

Identificando le teorie empiriche con le ipotesi prodotte induttivamente e contrapponendole ai giudizi analitici, egli semplicemente non scinde il “contesto della scoperta” dal “contesto della giustificazione”.

Riconoscendo che quella dell’invenzione di una ipotesi e quella del suo controllo sono due operazioni epistemologicamente distinte, e che, come hanno osservato Albert e Rosemberg, dedurre logicamente delle leggi da determinati presupposti assunti come veri non ne fa delle ipotesi analitiche, si può invece sostenere, come fa Mises, che la prasseologia è una importante componente di quella scienza teorica che offre alla “scienza storica” e a quella “previsiva” leggi per le loro spiegazioni e previsioni. Scindendo i due “contesti” ed avendo ben chiara (in questo Rothbard trascura la lezione di Menger) questa tripartizione delle scienze su base metodo- logica, ci si può rendere meglio conto di come la scienza teorica può individuare teorie anche attraverso un metodo a priori.

E tuttavia tali leggi, che l’analisi prasseologica stabilisce indipendentemente dal- l’esperienza empirica, possono essere sottoposte ex post a controllo empirico, quando vengono impiegate per spiegare e prevedere.

5. DALLA PRASSEOLOGIA AL DIRITTO NATURALE: ALLA RICERCA DI VALORI SUPERIORI

Due sono i punti principali sui quali Rothbard prende decisamente le distanze da Mises: sulla natura dell’assioma fondamentale (e dei suoi corollari) della prasseologia e sulla possibilità di dare una fondazione oggettiva ai valori.

Se con il tentativo di fondare empiricamente la prasseologia Rothbard segue una strada diversa, ma che tuttavia va nella stessa direzione seguita da Mises di proporre una scienza a priori dell’azione umana, con il suo fondazionismo etico, invece, egli rompe con la tradizione misesiana, contestando quella contrapposizione tra mezzi oggettivi, di cui si occupa la prasseologia, e valori soggettivi razionalmente indecidibili, di cui si occupa l’etica, che rappresenta il nucleo centrale dell’intera riflessione misesiana.

La strategia di Rothbard è molto chiara: affiancare ad una prasseologia che produce una conoscenza empirica incontrovertibile, un’“etica assoluta” (Rothbard [1961b] 2005, p. 133), che, ricorrendo al diritto naturale, individui valori superiori.

“Non solo possiamo affermare con assoluta sicurezza – egli spiega – che certi metodi e mezzi sono irrazionali, ma possiamo anche andare oltre e affermare che certi fini sono irrazionali”, in quanto contrari ai diritti naturali, i quali possono essere accertati attraverso una “assoluta, oggettiva, profonda esplorazione della natura umana conoscibile” (ivi, p. 132).

Se la prasseologia è una scienza a priori che perviene a verità assolute sui mezzi, il diritto naturale è una “scienza” che individua verità assolute sui fini.

Due prospettive complementari che concorrono ad assicurare un incontrovertibile punto di vista privilegiato nelle vicende umane.

A differenza di Mises e Hayek, Rothbard non intende limitarsi a offrire buone ragioni per scegliere l’ordine liberale e l’economia di mercato (R. Modugno 2005 pp. 5 e ss), bensì dimostrare che quella libertaria è una scelta oggettivamente migliore rispetto alle altre, in quando basata su valori che possono essere dimostrati oltre ogni dubbio superiori.

Dal punto di vista rothbardiano, quindi, non si può essere liberali e relativisti etici; al contrario, l’“etica della libertà” è un’“etica assolutista, fondata sulla legge naturale” (ivi, p. 135).

E se Mises ha avuto il grande merito di essere “un assolutista prasseologico o epistemologico”, la sua “più grande manchevolezza”, agli occhi di Rothbard, è proprio quella di essere “sfortunatamente un relativista etico”, che ha teorizzato che la prasseologia si occupa solo dei mezzi e non dei fini ultimi (ivi, p. 133): “l’approccio utilitarista e relativista di Mises all’etica, conclude Rothbard, non è neppure lontanamente sufficiente per sostenere pienamente la libertà” (ivi, p. 135)11.

6. IL FONDAZIONISMO ETICO È INCOMPATIBILE CON LA SCUOLA AUSTRIACA

Non è questa la sede per entrare nel merito della sostenibilità di un’etica giusnaturalistica, a cui altri saggi contenuti in questo numero di Nuova Civiltà delle Macchine rivolgono efficaci critiche epistemologiche.

Mi limito, invece, a segnalare alcuni aspetti del ragionamento di Rothbard che rendono estremamente difficile la sua collocazione nella tradizione liberale austriaca.

a) Ritenendo la prospettiva liberale incompatibile con il fallibilismo gnoseologico e il relativismo etico, Rothbard di fatto si pone fuori dalla Scuola austriaca di economia (oltre che da una più vasta tradizione liberale che va da Hume a Mill, fino a Popper), la quale, attraverso argomentazioni epistemologiche, con cui peraltro Rothbard non si misura, ha difeso la libertà proprio combattendo l’assolutismo (soprattutto) nel dominio della morale, dopo aver evidenziato come tale pretesa fosse uno dei tratti principali dei totalitarismi del Ventesimo secolo.

b) Rothbard loda Mises per il suo “assolutismo epistemologico”; ma, a partire dalle sue analisi sul calcolo economico, Mises è stato uno dei principali teorici della fallibilità della conoscenza umana.

Solo commettendo il grave errore epistemologico di confondere apriorismo e assolutismo conoscitivo può indurre a concludere che l’insistenza di Mises sull’analisi a priori dell’azione umana porti a una conoscenza assoluta.

c) Piuttosto incredibilmente, Rothbard afferma di non condividere l’approccio “utilitarista” con cui Mises difende l’ordine liberale, dimenticando che in Human Action vengono formulate alcune delle più dure critiche all’utilitarismo e al “fantoccio del- l’homo oeconomicus”, e che lo stesso Mises ha ripetutamente messo in guardia dal confondere il proprio punto di vista con l’utilitarismo (L. von Mises [1949] 1959, pp. 60 e ss).

d) Quando non esita a sostenere che, non solo i fini, ma gli stessi “assiomi fondamentali della prasseologia sono basati empiricamente sulla natura dell’uomo, piuttosto che sulla struttura logica della mente umana” (Rothbard [1961b] 2005, p. 130) e che quindi “possiamo affermare con assoluta sicurezza che certi metodi e mezzi sono irrazionali”, Rothbard finisce inevitabilmente per saldare la prasseologia al diritto naturale, introducendo la categoria di irrazionalità non solo per qualificare i fini, ma anche per giudicare i mezzi.

In questo modo egli vìola il postulato di avalutatività della prasseologia (M. Rothbard [1982] 1996, p. 42) e abbandona quella concezione misesiana puramente metodologica della razionalità, intesa come principio per spiegare l’azione e non come criterio per valutarla, che ha rappresentato una delle più feconde acquisizione delle scienze sociali.

In Rothbard la razionalità cessa di essere uno strumento per acquisire conoscenza empirica e diventa un criterio per giudicare la scelta dei mezzi e quella dei fini, a seconda del grado di prossimità con i valori libertari.

Niente di più lontano e contraddittorio rispetto a Mises, per il quale “la condanna di un’azione come irrazionale ha sempre le sue radici in una valutazione effettuata sulla base di una scala di valori diversa dalla nostra”, pertanto “se non desideriamo giudicare i fini e la scala di valori degli altri, affermare la nostra onniscienza, la dichiarazione ‘egli si comporta in modo irrazionale’ è priva di significato, perché non è compatibile con il concetto di azione” (L. von Mises [1976] 1988, pp. 56-57).

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